Madame Louvre - storia di un amore infinito
Madame Louvre - storia di un amore infinito
Dieci ottobre 1968. Ricordo che appena scendemmo dalla scaletta, una pioggia leggera ci rinfrescò il viso. Il mio primo viaggio in aereo era stato perfetto. Vedere le Alpi dall’alto, con le nevi perenni che immacolate salutavano il nostro passaggio, mi aveva fatto piangere di felicità. Mi ero stretta a Giobbe, che sorrideva placido con gli occhi socchiusi. Avevo trentadue anni ed ero una giovane donna alta e con lunghi capelli castani. Lui aveva due anni più di me, un bell’uomo muscoloso sotto il soprabito beige e il solito sorriso bonario stampato in viso.
Eravamo sposati da due mesi e quello era il nostro breve viaggio di nozze.
Una volta arrivati prendemmo subito un taxi. Volteggiando nel traffico come un ballerino nevrotico, l’autista ci portò in breve tempo davanti al nostro hotel, situato in Rue d’Aboukir, un’anonima traversa nel fitto reticolo delle vie cittadine. Come punto di riferimento avevamo rue St. Denis; da lì avremmo iniziato il percorso per girare questa incantevole città.
Le mie colleghe mi avevano regalato un cappellino nero con una spilla posta sul lato sinistro, a nord ovest, mi dissero.
Ero felice, niente di più.
La stanza era grande, con enormi tende di broccato rosso che una volta scostate ci aprivano lo spettacolo del sole al tramonto. Giobbe mi abbracciava e mi baciava, silenzioso e felice come un innamorato.
Il mattino dopo, il primo dei tre giorni che avremmo dovuto trascorrere a Parigi, decidemmo di visitare la Tour Eiffel.
Camminammo per qualche chilometro costeggiando la Senna, respirando l’aria pulita che arrivava dal nord della Francia. Mi sentivo una ragazzina intrepida e piena di amore per Giobbe e per tutto il creato. Sorridevo a ogni passante, e mandavo baci verso il cielo.
Cominciammo a vedere la Torre da lontano, semplice e imponente. Passo dopo passo era sempre più grande, fino a diventare gigantesca e docile, placida come una madre in attesa che il proprio figliolo gli corra in grembo. Giobbe mi teneva per mano e a ogni incrocio mi abbracciava e mi baciava sulla bocca.
Ero felice, niente di più.
Prendemmo l’ascensore per salire sino in cima. Prima i gradini fatti di corsa, poi una piattaforma che ci portò fino alla sommità. Che spettacolo! Da Montmartre a Montparnasse, con i giardini delle Tuileries che si stendevano a vista d’occhio sotto di noi. Il panorama a trecentosessanta gradi della città mi è rimasto negli occhi, indelebile alla polvere del tempo che passa. Abbracciai Giobbe e gli passai la lingua nell’orecchio facendolo fremere per il solletico. Anna, mi sussurrò.
Tirava vento e i miei capelli si sollevavano in maniera orizzontale, impertinenti e indisciplinati.
Sorridevo alla vita, niente di più.
Guardare al passato è un esercizio quotidiano. Il fotogramma di un istante diventa eternità, e regala un significato a una vita intera.
Il giorno dopo decidemmo di andare al Museo del Louvre.
Non trovammo molta gente in attesa, perché quello era il periodo ideale per visitare Parigi.
Entrammo di corsa, paonazzi in viso, e subito fummo accolti da statue gigantesche di marmo bianco. Fu così grande il mio stupore che Giobbe mi strinse a sé, incredulo come me a quella vista. La bellezza è ordine e lì regnava un ordine sovrano. C’erano talmente tante stanze, corridoi, saloni da visitare che sostammo incuriositi a leggere l’opuscolo che ci avevano dato all’entrata. Poi, in simbiosi, cominciammo a girare, a vedere vasi, suppellettili, oggetti di epoche remote.
Nelle sale successive ammirammo le stanze dei re, piene di drappi rossi, di rilievi dorati e di quell’opulenza ottocentesca che avevo studiato sui libri di scuola. Giobbe era sempre al mio fianco, accarezzandomi le spalle ogni qualvolta mi soffermavo estasiata davanti a qualche capolavoro.
Passammo nelle sale dei pittori italiani. Il Veronese con i suoi quadri enormi che ricoprivano interamente una parete, il Caravaggio con i suoi colori cupi e tanti e tanti altri. Ora li conosco tutti a memoria, potrei narrarvi le storie dei pittori, dei loro quadri e le tecniche di lavoro. Nel tempo sono diventata una donna erudita, grazie alla mia curiosità e al tempo che il destino mi ha messo a disposizione.
Arrivammo alla Gioconda di Leonardo, la vera star del museo, con il suo sguardo enigmatico che ti segue mentre le passi davanti. Giobbe era stanco e si sedette proprio davanti ad ammirarla in maniera estatica. Mi misi al suo fianco e lo baciai su una guancia. Ricordo ancora il suo sorriso e i suoi occhi dolci e pazienti.
Dopo una decina di minuti riprendemmo il cammino per spostarci nel settore dei pittori fiamminghi. Qui il registro pittorico cambiava improvvisamente. Che turbinio di colori! E che dipinti pieni di vita! Ora ero io che mi sentivo stanca.
Mi misi davanti a una tela di Rubens e chiusi gli occhi. Sentivo il bisogno di estraniarmi da tutta quella bellezza per un paio di minuti.
Ebbi come l’impressione di viaggiare nel tempo e di lì a poco mi addormentai.
Quando mi svegliai, trovai la sala vuota. Solo il quadro di Rubens sembrava osservarmi. Mi sentii un po’ stranita e cominciai a cercare il mio Giobbe. Girai le sale adiacenti chiamando a voce sommessa il suo nome. Nessuna risposta venne in mio aiuto. Era quasi orario di chiusura e mi ritrovai sola. Chiesi ad alcuni controllori se avessero visto un uomo atletico con un soprabito beige, ma le risposte furono vaghe e laconiche.
Tornai verso l’uscita roteando la testa per percepire qualsiasi figura che somigliasse al mio Giobbe. Nulla.
Una volta fuori mi appoggiai al muro di un grandissimo salone. Vi rimasi un po’, un periodo senza tempo perché ne stavo perdendo la cognizione. Mi sentivo febbricitante e sola, fino a quando arrivò una ragazza che mi comunicò che l’atrio che dava sul giardino era in chiusura. La guardai implorante e le dissi che non trovavo più il mio accompagnatore. Mi guardò sorridente, rispondendomi che molte persone si perdevano per il museo per poi ritrovarsi in albergo.
Parigi era una città molto grande, dove smarrirsi era più facile che trovarsi.
Presi un taxi e ritornai in albergo. Ero sicura di ritrovare Giobbe nell’atrio dove mi avrebbe abbracciato e baciato sulla bocca. Scesi dal taxi sotto una pioggerellina fine che m’inumidiva i capelli. Gli diedi un colpo secco per rimetterli a posto, come per scacciare i cattivi pensieri.
In albergo di Giobbe nessuna traccia. Chiesi al maitre nella hall se lo avesse visto. Stanza 1408. Non potrò mai dimenticarne il numero. No signora. Non l’ho visto, fu la sua risposta.
Andai in camera con le lacrime agli occhi. Non sapevo esattamente cosa pensare. Mi tolsi le scarpe con noncuranza, mi struccai e mi misi a letto vestita così com’ero. A testa in giù, con le braccia che mi coprivano gli occhi.
Dormii un sonno profondo, ritmato da tanti sogni. Per la maggior parte credo fossero proprio inverosimili. Avevo visto
Giobbe arrivare a bordo di una carrozza a forma di carota, accompagnato da enormi fuochi d’artificio. Giunto dinanzi a una porta era sceso e stava per bussare. E, proprio quando stava per farlo, si fermava e risaliva sulla carrozza. A questo punto i fuochi d’artificio si spensero all’improvviso ed io mi risvegliai. Ero sola, come la sera prima.
Mi feci subito una doccia, mi cambiai d’abito e uscii. Non feci nemmeno colazione.
Ritornai al Louvre cercandolo dietro ogni angolo, scrutando oltre le vetrine dei bistrot, osservando la moltitudine silenziosa.
Comprai il biglietto ed entrai.
Cominciai a girare le sale che avevamo percorso il giorno prima. Ricordavo ogni singolo momento, ogni battuta o stato d’animo. Ogni tanto chiedevo a qualche controllore se avesse visto Giobbe, fornendogli una dettagliata descrizione. Nulla. C’era molta confusione quel giorno e le risposte sempre evasive. Ripassai davanti alla Gioconda, e mi sedetti nello stesso punto, dove ci eravamo seduti il giorno prima. La guardai fissa negli occhi e mi sorpresi a chiederle lumi su cosa fare. Il suo sguardo era così enigmatico, che sperai veramente m’indicasse una direzione.
Indecisa mi rialzai e mi diressi verso i saloni dei pittori fiamminghi. Ritrovai il quadro di Rubens, dove mi ero appisolata il giorno prima. Mi sembrava diverso, addirittura leggermente fuori posto rispetto a come lo ricordavo.
Camminai senza un riferimento preciso, sommersa dai vestiti, dai colori, dalla vita che traboccava da quei dipinti. Mi sembrava di esserne parte integrante. Richiesi ai controllori se avessero visto qualcuno simile alla descrizione che fornivo. Mi guardarono curiosi. Niente di più.
Ritornai in albergo sperando di trovare il mio Giobbe con le vesti stracciate, che mi attendeva per abbracciarmi e baciarmi. Purtroppo trovai ancora la hall deserta. Entrai in camera, mi struccai, mi feci una doccia e mi misi la camicia da notte. Voglio dormire bene, pensai.
La mattina mi risvegliai stranamente riposata. Non avevo fatto sogni, era stata una lunga cavalcata silenziosa che mi aveva condotto sino al mattino.
Mi vestii in fretta, scesi e feci un’abbondante colazione. Presi il taxi e ritornai al Louvre.
Perché scrivo queste poche righe? Perché sento che non ho più molti giorni da vivere e oggi mi sono svegliata con una strana sensazione. Questi cinquantadue anni li ho passati tutti i giorni al Louvre a cercare il mio Giobbe. Imperterrita, con ogni tipo di tempo, a volte con la febbre, con il dolore ai piedi cui ormai sono abituata. Sempre. Ora sono un’istituzione qui dentro. Come la Gioconda, che è un’opera d’arte viva, che ti osserva sempre curiosa e volitiva. A volte mi capita di carpire qualche sua segreta indicazione.
Eppure la signora, la vera opera d’arte, sono io. Sono io Madame Louvre e tutti mi riveriscono. Nei pochissimi giorni di chiusura, perlopiù Natale e qualche altra festa comandata, non sono mai rimasta sola. Tutti mi sono stati vicino. Controllori, bigliettai, impiegati, due volte anche il direttore, mi hanno invitata a casa loro.
Oggi lo sento, e la Gioconda in un modo sottile ieri me lo ha fatto capire, troverò il mio Giobbe. E appena mi scorgerà, correrà ad abbracciarmi come solo lui sa fare. Oh, sono sicura che mi riconoscerà, nonostante non sia più alta e dritta come allora e un bastone sorregge il mio passo, mentre il colore dei capelli è sfumato in un grigio chiaro, con sottili bagliori violacei.
Non potrà non riconoscermi.
Ecco perché scrivo, perché a differenza della Gioconda, so di non essere immortale.
E a tutti voi, donne e uomini di buona fede, che affrontate la vita giorno per giorno, lottando, ridendo, piangendo, porgendo una guancia sempre più emaciata o un sorriso sempre più spento, assorbendo gli urti del tempo e dell’età che vi accompagna, a tutti voi mando un invito a sentire questo mio consiglio.
Rimanete semplici, cercate di fare tesoro di ogni situazione e vivete con il vostro segreto, intimo ed eterno. Chiamatelo pure con il nome che volete, e aspettate il suo arrivo. Preparatevi a un tempo veloce che può dare soluzioni mozzafiato o a una paziente attesa. A volte può non bastare una vita. Io questo segreto l’ho chiamato speranza. L’ho sempre avuta, seguita, incoraggiata. Con cocciutaggine, nei giorni tristi e in quelli più allegri, ho sempre avuto la speranza come fedele compagna.
Oggi, ve lo ripeto, ho una strana sensazione. Potrebbe essere il giorno in cui riabbraccerò il mio Giobbe. Già me lo immagino. Lo vedrò arrivare con passo lento, perché gli anni peseranno sulle sue spalle e finalmente ci riabbracceremo come fosse la prima volta. E mi bacerà sulla bocca. La mia speranza incrollabile mi dice che sono sulla strada giusta e fin qui ho fatto ciò che dovevo.
Ora però ho fretta, l’orario di apertura è alle nove ed io voglio essere la prima a entrare. Spero d’incontrarlo nella sala più grande di tutto il museo, dove l’aria è più pulita e la luce illuminerà il mio viso affinché lui lo possa vedere meglio.
In quel posto, quando non c’è nessuno, sembra di galleggiare in uno spazio infinito. Come il mio amore.
- Nicolandrea Riccio
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- Alberto Marcolli
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commento Madame Louvre - storia in un amore infinito
primo - giudizio personale sulla qualità del testo, a prescindere dai refusi veniali che affliggono spesso un testo di prima stesura,
secondo - personale gradimento della storia narrata.
Ho fatto prevalere di molto il primo aspetto, essendo il gradimento molto soggettivo e non mi sembrava corretto penalizzare l’autore solo perché a me non piaceva, per esempio, il racconto fantasy o altro: mica sono l’editore che segue le logiche del mercato!
Seguendo questo metodo ho dato il voto 4.
Temo che dalla prossima volta cambierò sistema. Non mi sembra giusto, ma se gli altri commentatori seguono il metodo di far prevalere il gradimento sono costretto a seguire l'onda.
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Che fortuna i piccioncini a trovare una stanza grande a Parigi ma forse, nel 1968, gli alberghi della Capitale Francese non avevano tutte stanzette minuscole...
Complimenti per la forma e le descrizioni piene di particolari, che aiutano ad immergersi nell'atmosfera.
Personalmente trovo molto originale l'idea, che oltretutto lascia grande spazio di interpretazione a chi legge, e ho gradito il finale aperto.
- Roberto Bonfanti
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Personalmente trovo un po' forzato il consiglio, lezione di vita o morale che dir si voglia. Non che sia criticabile in sé, è, come dire, artificioso da legare alla storia. Ripeto, è solo il mio parere.
Comunque mi è piaciuto.
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Tirando le somme, di solito quando voto mixo ciò che è il mio gusto personale e come lo reputo a livello formale, poi confronto con gli altri testi da me già votati/commentati. Qui per me sarebbe tra il 3 e il 4, tre mi sembra poco perché appunto è scritto bene e ha una sua originalità, 4 mi sembra un pochino troppo perché il racconto di Roberto ad esempio mi convince di più. Allora voto 4, allineandomi agli altri voti, in ogni caso è il commento la componente più importante della gara e ti ho tediato già abbastanza.
- Laura Traverso
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Ma io purtroppo non ho la pazienza della tua protagonista.
Racconto in due momenti, uno al passato e uno al presente(?) come due piani destinati a non incontrarsi mai.
Gradevole, ben confezionato, leggero ma triste, mi ha lasciato un vago senso di dejà vu.
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Giobbe è scappato, è stato rapito, è morto, esiste solo nella mente della protagonista? Siccome la mia infanzia è stata segnata da Belfagor, mi piace pensare che sia nascosto in un sarcofago.
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- Marino Maiorino
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Scritto bene, ben concluso, incoraggiante, ma mi sembra di aver colto una consistente incongruenza che non viene risolta (al di là di quelle di ordine pratico che, in un racconto del genere, vanno sempre lasciate da parte): Giobbe è mai stato reale?
Se il messaggio è quello di credere nelle proprie speranze, lo stesso personaggio di Giobbe è del tutto irrilevante, non ha nemmeno senso presentarlo, dargli un volto. Ma se è invece così importante da presentarlo come è stato, il problema è di ben altra natura, si entra nel dominio delle illusioni, e io non le incoraggerei mai per così tanti anni (ma a chi la do a bere? Se io stesso...)
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scritto abbastanza bene, con buone descrizioni, tuttavia rimane freddo e distaccato.
trovo molto inverosimile che una donna insista a cercare il suo uomo per cinquantadue anni nello stesso posto.
che fine avrà fatto poi...
la parte della morale fa scadere un poco la storia, almeno secondo il mio punto di vista.
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Per il resto c'è una storia che scorre bene, piena di mistero e romanticismo; e una scrittura buona, che accompagna bene la narrazione.
Il tutto per un buon voto, insomma.
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