Una sera al Roundhouse di Camden
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Una sera al Roundhouse di Camden
Quell’estate del sessantotto, grazie all’amico Steve, ottimo chitarrista, che mi ospitava nella sua casa londinese, vivevo immerso nella spumeggiante realtà giovanile e cosmopolita della città.
Qualche lavoretto ogni tanto, giusto per non morire di fame, e poi ogni espediente era lecito, pur di non perdermi i tantissimi spettacoli, festival pop e commedie musicali che animavano Londra in quegli anni.
L’attesa era stata spasmodica, ma finalmente il gran giorno era arrivato e, come promesso, Willy ci accompagnò con la sua mini al luogo del concerto.
Il tragitto in auto fu abbastanza breve, più complicato fu trovare un parcheggio, confusi nel dedalo di stradine che formavano l’originario borgo di Camden, situato nella parte settentrionale della grande Londra.
Sistemata la vettura, dopo molti tentativi, in una piazzetta lontana, Willy, Bob ed io raggiungemmo il Roundhouse a piedi: il posto era sconcertante!
Una fertile euforia aveva trasformato un rudere derelitto, freddo e polveroso, in uno straordinario punto d’incontro. Ragazzi barbuti forgiavano orecchini, pendagli, collane, anelli e bracciali. Altri annodavano e poi tingevano jeans e magliette, creando stravaganti schizzi colorati. Artisti di strada disegnavano ritratti, mentre i venditori ambulanti esponevano, su improvvisati banchetti, libri e dischi di seconda mano, essenze e incensi indiani, candele profumate, abiti usati, dolciumi, panini e mille altre bizzarre minutaglie.
A tratti giungeva alle narici la fragranza intensa del balsamo all’olio di patchouli, che si mescolava a quella più penetrante degli spinelli alla marijuana, mentre un tizio, bardato come un giocoliere, suonava contemporaneamente chitarra, armonica a bocca, trombetta, grancassa (caricata sulle spalle), piatti e campanelli (cuciti sulle gambe dei pantaloni). Era un vero spasso!
L’edificio, costruito dalle Ferrovie Britanniche nella seconda metà dell’ottocento, era stato utilizzato, ma solo per un breve periodo, come riparo per le ingombranti locomotive a vapore, trasformandosi poi nel magazzino londinese di una distilleria di whisky scozzese. Abbandonato da quasi mezzo secolo, il Comune di Camden lo aveva acquistato, a metà degli anni sessanta, allo scopo di soddisfare le pressanti richieste giovanili per un luogo pubblico dove organizzare eventi musicali e feste popolari. Nell’ampio spazio coperto, grazie a un’intraprendente raccolta fondi, il Comune vi aveva edificato un anfiteatro semi-circolare, con le gradinate in tavole di legno, avvitate su massicci tralicci di ferro. Avrebbe potuto contenere, a occhio e croce, un migliaio di persone, o forse il doppio, se pigiate come sardine in scatola.
Guidati da Willy, ci avventurammo all’interno, accostandoci a un capannello di persone assorte in un’animata discussione. Willy individuò tra di loro l’amico Kris, direttore logistico dello spettacolo, che stava polemizzando energicamente con un responsabile della Power Station, per nulla soddisfatto della scarsa energia elettrica a disposizione per il concerto. Alla fine, con un ultimo gesto sconsolato, Kris si congedò dal suo interlocutore e, notata la presenza di Willy, si diresse verso di noi.
Willy ci presentò. Kris era un ometto grassoccio, con bislacchi occhialini quadrati e orecchino solitario a forma di croce. Indossava un completo in cotone bianco, con giacca, gilè e pantaloni a zampa di elefante, camicia azzurra e papillon, mentre un ampio cappello color panna serviva a nascondergli la pelata.
In nome di un’antica amicizia, Willy aveva strappato a Kris la promessa di reclutarci tutti e tre nel gruppo degli addetti alla sicurezza e aiutanti in generale. Perennemente squattrinati, era questa l’unica soluzione che eravamo riusciti a escogitare, pur di assistere a quello che per noi sarebbe stato il concerto del secolo. Scrutavamo ogni cosa con meticolosa curiosità, tentando un impossibile ambientamento in quegli spazi inverosimili, finché Kris chiamò tutti a raccolta, invitandoci a sedere sulla gradinata di fronte a lui. Appena il tempo di un frettoloso saluto e iniziò la descrizione dei vari compiti. Destinò una metà di noi alla sorveglianza esterna, di certo l’incarico più ingrato: vigilare delle porte chiuse, senza poter assistere alla festa. Quattro furono inviati a piantonare i collegamenti elettrici, dal pannello primario alla centrale sotto il palco; a un terzo gruppo, invece, affidò il tratto fino agli amplificatori. A Bob e Willy chiese di badare al regolare funzionamento dei trasformatori a tergo della lunga sequela d’altoparlanti e al drappello rimasto, me compreso, affidò la custodia del fronte palco, protetto soltanto da una fila di deboli transenne.
Kris ci confermò che Jim, Ray, John e Robby erano attesi alle ore cinque per l’intervista con la Granada Television e la prova degli strumenti: avevamo quindi tre ore appena per preparare tutto quanto.
Fu un lavoraccio estenuante. I più robusti si sobbarcarono lo sforzo di trasferire sul palco l’immensa (per allora) dotazione elettronica, composta da una decina di casse acustiche, più organo, batteria e delicatissimi amplificatori valvolari. A complicare il lavoro ci pensarono i tecnici americani, rivelatisi degli scompaginati come pochi. Pretesero, infatti, di rivoluzionare più volte la disposizione iniziale, da loro stessi indicata, obbligandoci a sudare un centinaio delle proverbiali sette camicie. Prova e riprova, si dovevano pure collocare le ingombranti telecamere, preposte alla ripresa televisiva e, alla fine, rimase lo spazio per un solo ripetitore anteriore a uso degli artisti. Date le circostanze, Kris, facendo di necessità virtù, si convinse che ne sarebbe bastato uno solo.
- The Doors sono musicisti affiatati, - precisò, - dotati di sicura sensibilità musicale.
In una parola, pensai io, erano cavoli loro!
L’impresario inglese, volendoli accogliere nel rispetto dei tradizionali costumi britannici, aveva noleggiato una fiammante Rolls Royce bianca che li caricò, sotto gli occhi di reporter e cineoperatori, in prossimità della scaletta dell’aereo. La permanenza a Londra dei quattro sarebbe stata di due soli giorni e forse fu questo il motivo per cui Jim chiese all’autista di compiere un ampio giro per la città prima di raggiungere il Roundhouse di Camden, arrivando naturalmente in ritardo.
Al Roundhouse non esistevano camerini, ma Kris Cumming si adoperò per ricevere i musicisti nel migliore dei modi, allineando delle bibite su un tavolino all’interno di un bugigattolo in disparte, che lui osava chiamare ufficio. I ragazzi si servirono senza tante cerimonie e vennero a sedersi dinanzi agli amplificatori, su degli originali pouf a forma di giganteschi dadi da gioco, appoggiando con noncuranza i loro bicchieri sull’assito del palco. Una dozzina di fotografi ne approfittò per ritrarli in pose assai insolite, poi venne il turno di un intervistatore televisivo, che con un’aria da intellettuale rivolse a Jim varie domande sui movimenti di protesta giovanili, sulle avanguardie musicali emergenti e altro ancora. Jim sembrava non capire, obbligando il cronista a delle frequenti ripetizioni. Poi si decideva a rispondere, ma incespicando e divagando alquanto, rispetto agli argomenti proposti. Lì per lì giustificai quella scarsa capacità di concentrazione con lo stress per l’incombente concerto.
Finita l’intervista, si proseguì con la prova generale. Vi parteciparono i tre strumentisti e cantò Ray, l’organista, Robby il chitarrista ispezionò il funzionamento dei vari effetti elettronici, John il batterista, chiavetta in mano, regolò la tensione dei tamburi. Jim salì sulla gradinata più alta per controllare l’acustica, ordinando spostamenti e tarature, ma per nostra fortuna non furono necessarie altre gravose manovre. I quattro si dichiararono soddisfatti del risultato ottenuto, ringraziarono e sparirono dietro a un tendone che nascondeva il retro, ingombro di cavi.
Spenti i riflettori, calò il buio sul palco e sugli spalti, e si aprirono le porte. A momenti, lo show avrebbe avuto inizio.
Il pubblico, che aveva atteso in lunghe code disciplinate, entrò e si accomodò nella penombra, rotta a stento dal bagliore delle torce accese per illuminare le bancarelle, poste tra le vetuste pareti dell’edificio e i ponteggi delle gradinate. Sul palco tutto era silenzio. L’unico segno di vita era rappresentato dal luccichio delle spie in cima agli amplificatori, pronti a entrare in azione. Intravidi Bob e Willy piazzati in un angolino, seminascosti dalla lunga fila di diffusori connessi all’impianto voci: non avrebbero perso un singolo dettaglio del concerto! La mia postazione era nella zona anteriore del palcoscenico, leggermente defilata sulla sinistra, perfetta per seguire la scena, al riparo dal fascio di luce circolare che sarebbe arrivato dritto di fronte, e, nello stesso tempo, funzionale al controllo delle prime file di spettatori, come ordinato da Kris.
Chi erano questi quattro ventenni che appena usciti sulla ribalta avevano subito calamitato l’attenzione dei giovani d’ogni nazione? L’avventura era iniziata suonando nei locali sotterranei e nelle cantine della vecchia Los Angeles, nell’America sconvolta dalla sanguinosa guerra nel Vietnam, che a Dallas aveva visto assassinare il suo Presidente. L’America degli hippy e del pacifismo. A San Francisco e in tutta la costa californiana, il flower power si era imposto come la religione dei tempi nuovi, forte dei suoi dogmi più sconvolgenti, compreso l’uso massiccio di droghe e allucinogeni.
In siffatto fertile terreno di cultura era nata la leggenda di The Doors, in grado d’infiammare gli spettatori con le provocanti esibizioni del loro carismatico leader. Il gruppo aveva intrapreso l’esplorazione di vie musicali inconsuete per le mode dell’epoca, traguardo dichiarato era allargare i limiti del rock, varcando la soglia delle percezioni, come incitavano i testi delle loro canzoni. Ascoltare il loro primo disco, uscito nel ’67 e registrato nei mitici studi della Sunset Sound Recorders, significava accettare l’immersione in una specie di brodo primordiale, dove vi ribollivano richiami blues e rock psichedelico, poesia decadente e melodie esotiche. Ebbe un immediato successo e spalancò a The Doors le porte dell’universo musicale planetario.
Quel venerdì 6 settembre 1968 si apprestavano a celebrare la loro prima apparizione sul suolo inglese.
Ore nove: la musica decollò nella sala buia. Le luci si accesero... il concerto ebbe inizio.
Quasi a voler alzare gradualmente il velo e instillare fiducia, The Doors aprirono con un pezzo di blues ortodosso nel quale era l’organo di Ray a svelare la raffinatezza del suo tocco, costruendo il sottofondo perfetto per la voce di Jim. Ma già il pezzo seguente Break On Through (To The Other Side) era un pugno nello stomaco, un inno alla ribellione, per la conquista della libertà assoluta. La musica era dura, la batteria incalzante: da togliere il respiro.
Nella successiva When The Music Is Over, Jim, stivaletti scuri, pantaloni di pelle attillati, camicia bianca a sbuffi e ricami, cintura di borchie argentate, palesava tutto il suo fascino ipnotico: una sorta di menestrello, sedotto dagli istinti più oltraggiosi e autodistruttivi. La musica lo incoraggiava a osare l’impossibile con rullate prepotenti di tamburo, sparate di chitarra e lamenti sommessi dell’organo. Lui raccoglieva il guanto di sfida e lo gettava nell’arena stupefatta, che sudava e soffriva con lui.
Seguì un interludio di canzoni tra il leggero e l’allegro, messe lì per illudere i presenti di riuscire a ricomporsi, e poi via con i tre capolavori immortali!
Un’ora di maratona da brivido! Al cardiopalma!
Il primo fu Light my fire, una turbinante ode alla sessualità più trasgressiva, consacrata a consumarsi nel fuoco devastante di un blues-rock selvaggio. Il pubblico, mentre Jim intonava il suo oscuro, preistorico richiamo, era travolto dall’esplosione sonora che deflagrava tra le volute dell’organo e i richiami lancinanti della chitarra: un abbraccio ideale tra toni jazz e sonate barocche, tra flamenco e boogie, rock americano e folk arabo. Un duetto indimenticabile, vibrante, appassionato, leggendario.
Jim replicò da par suo. Si adagiò in profonda meditazione, scese dal palco aggirando i cavalletti della Granada Television, salutò una ragazza appoggiata alla parete sulla mia destra, fece un cenno come di scusa e si sporse di là dalle barriere. Tendendosi al massimo riuscì ad accostare il microfono a una ragazzina: lei cacciò un urlo forsennato, tentando senza riuscirci d’agguantarlo, mentre Jim con un gran balzo aveva già ripreso la sua posizione al centro della scena e, afferrato un secondo microfono, aveva ripreso a cantare. Le teste vibravano al ritmo straziante dell’organo, la platea ondeggiava e inseguiva i musicisti con un fervore che non mi è mai più capitato d’osservare.
Poi arrivò Unknown Soldier: una denuncia spietata contro tutte le guerre. Jim sudava, urlava, cambiava voce, si concentrava, si abbandonava a uno sfogo d’incontenibile e rabbiosa vitalità, saltava, provocava, si disperava. All’ultimo, ci fu una sessione di batteria allo sfinimento. L’organo tacque, Ray si rialzò sollevando il braccio in segno di resa. Allo sparo del plotone d’esecuzione, simulato da Robby con un colpo secco di bacchetta sulle corde della chitarra, al massimo volume, Jim si lanciò a terra... morto!
Ma ecco... si rialzava... la musica rinasceva in un crescendo parossistico, fino al rombo definitivo, altissimo. Poi... improvviso: il silenzio! Il buio!
E dal buio salì The End. Un massacrante refrain perso in un oceano di ricami orientaleggianti, di spirali psichedeliche che oscuravano la mente e la incantavano, per fulminarla con un finale da pelle d’oca. Chitarra, organo e batteria si unirono in un pazzesco crescendo. Jim era un rodato attore teatrale, oltre che un rocker insuperabile. Interpretò una delle sue sceneggiate più terrificanti, spaziando sapientemente da toni soffusi a slanci smodati, tra esaltazione contemplativa e spasmi epilettici. Il suo era un delirio, il delirio di un moribondo, di un folle poeta paranoico imbottito di droghe allucinogene. Al confronto con la versione discografica, gli interludi erano infiniti e le liriche declamate da Jim, perverso moderno stregone, erano una mazzata in testa ai vecchi valori ipocriti e perbenisti. Venti minuti di agonia per una delle cavalcate più epiche nella storia del rock.
Dopo il concerto ci fu un seguito per Willy , Bob ed io.
Kris volle farci conoscere Jim, Ray, John e Robby, e Jim propose di festeggiare l’incontro offrendo da bere a tutti. Kris, da gran conoscitore della città, suggerì The Wellington Pub, alla chiusura ci spostammo a piedi al Ronnie Scott's Jazz Club di Soho e ne uscimmo, ubriachi di musica e birra, a mattina inoltrata. Ma questa è un’altra storia.
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Una sera al Roundhouse di Camden
Al concerto dei Doors io ero sugli spalti con il mio amico Maurizio. Per la cronaca, suonarono prima di loro i Jefferson Airplane con l’indimenticabile Grace Slick.
La narrazione in prima persona è in verità l’esperienza di Andrea, come me la raccontò lui stesso due mesi dopo, quando lo conobbi in occasione di un altro memorabile concerto.
A scuola appena iniziata, i miei non mi avevano permesso di volare a Londra nel mese di ottobre, mancando così il concerto al Forum dei Cream con i Deep Purple. Ma non a novembre per il concerto di addio dei Cream al Royal Albert Hall.
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Ottimo lavoro
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Re: Commento
Tutto vero, ma a diciott'anni non ci pensavamo. E questo è un racconto del '68.Paola Tassinari ha scritto: ↑02/04/2022, 14:30 … manca qualcosa però, il malessere che stava dietro a tutto questo fermento. La violenza, la paura, la tensione, il panico, la maledizione, il tipo di droga che per lo più era LSD, la droga del divino, del paradiso, delle allucinazioni, lo schiacciare le sigarette accese sulla pelle delle ragazze di Morrison, la sua reincarnazione in un nativo indiano… neanche un accenno della loro musica psichedelica con tutto quello che ci sta dietro… non era solo uno spasso era anche arancia meccanica.
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innanzitutto, vorrei ringraziarti. Tra i tanti gruppi degli anni sessanta e settanta di cui al tempo hai partecipato ai concerti, i Doors è l’unico gruppo che conosco bene. Questo perché, pur essendo della generazione successiva alla tua, alle scuole medie avevo un compagno di classe che venerava Jim Morrison e che mi ha iniziato alle opere immortali di questo cantante maledetto. Le descrizioni di questa esperienza, per certi versi quasi metafisica, sono davvero belle e coinvolgenti e, in particolare, mi sono ritrovato subito nelle sensazioni e nelle emozioni scaturenti dalle canzoni da te citate nel racconto. In sintesi, i Doors costituiscono per me l’anello di congiunzione con quel mondo straordinario fatto di musica che, per tua fortuna, hai vissuto in prima persona e che per me costituisce solo un’eco lontana proveniente da musicassette Basf e Sony che, al tempo, avevo duplicato con il mio stereo Aiwa… Insomma, anche per motivi personali, ma non solo, non posso che dare il massimo dei voti.
A proposito, già che ci sono allego il testo della canzone con cui ho avuto il mio primo incontro con Jim (dimenticavo: "Riders on the Storms" è la melodia che parte in sottofondo quando chiamo il commercialista dell'azienda con cui lavoro...):
People Are Strange
People are strange when you're a stranger
Faces look ugly when you're alone
Women seem wicked when you're unwanted
Streets are uneven when you're down
When you're strange
Faces come out of the rain
When you're strange
No one remembers your name
When you're strange
When you're strange
When you're strange
People are strange when you're a stranger
Faces look ugly when you're alone
Women seem wicked when you're unwanted
Streets are uneven when you're down
When you're strange
Faces come out of the rain
When you're strange
No one remembers your name
When you're strange
When you're strange
When you're strange
Alright, yeah
When you're strange
Faces come out of the rain
When you're strange
No one remembers your name
When you're strange
When you're strange
When you're strange
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Re: Commento
Erano gli anni in cui la musica occupava quasi tutti i miei interessi, forse addirittura superiori all'amore per le ragazze.Messedaglia ha scritto: ↑09/04/2022, 11:15 innanzitutto, vorrei ringraziarti. Tra i tanti gruppi degli anni sessanta e settanta di cui al tempo hai partecipato ai concerti, i Doors è l’unico gruppo che conosco bene.
Concerti, quasi tutti in Inghilterra, ma anche a Milano ce ne furono di memorabili.
A scuola, l'unica materia in cui ero imbattibile era "inglese", che imparavo sul posto ma anche sui libri di Carlos Castaneda. Chi non avesse mai letto il suo primo libro "A Yaqui Way of Knowledge" lo consiglierei, soprattutto a chi ama il genere diciamo: "Filosofia , antropologia , etnografia , sciamanesimo". Allora io ne ero letteralmente conquistato, poi la vita mi ha insegnato a essere più prudente.
Non escludo di scrivere i miei ricordi, per ora soltanto scarabocchiati sulle pagine di un vecchio diario ingiallito, sul concerto di Jimi Hendrix al Piper di Milano, 23 maggio 1968.
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Noto che però sei stato più distaccato e manierista col resto della storia: usi moltissimo espressioni "da manuale", al punto che si potrebbero quasi anticipare. Cerca di infondere la stessa personalità anche nelle fasi di costruzione e nel brevissimo (e alquanto slegato dal resto) epilogo.
Anch'io ho i miei molti problemi con le virgole, quindi mi sento "titolato" a osservare i tuoi, non moltissimi, ma che in genere spezzano periodi altrimenti scorrevoli. Un esempio:
"La permanenza a Londra dei quattro sarebbe stata di due soli giorni e forse fu questo il motivo per cui Jim chiese all’autista di compiere un ampio giro per la città, prima di raggiungere il Roundhouse"
qui la virgola non la ritengo necessaria.
Tra i diversi paragrafi ho scelto questo perché proprio al suo inizio ho notato il refuso "volendogli accogliere nel rispetto dei tradizionali costumi britannici", dove immagino fosse "volendoLi".
Uff... questa gara sarà dura!
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Re: Commento
concordo con entrambe le tue segnalazioni: la classe non è acqua, mi dico sempre, e si vede.Marino Maiorino ha scritto: ↑18/04/2022, 10:06 Noto che però sei stato più distaccato e manierista col resto della storia: usi moltissimo espressioni "da manuale", al punto che si potrebbero quasi anticipare. Cerca di infondere la stessa personalità anche nelle fasi di costruzione e nel brevissimo (e alquanto slegato dal resto) epilogo.
...
Uff... questa gara sarà dura!
Cercherò di mettere in pratica i tuoi consigli. Tanto per incominciare riscriverò questo racconto, come ho anche fatto con quello precedente, ma per correttezza eviterò di cambiare il testo in gara.
Uff... questa gara è bellissima! È un piacere avere a che fare con tante persone competenti.
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Mi è piaciuto l'inizio che rende bene l'idea del background londinese di allora.
Ho apprezzato anche la descrizione del leader del gruppo e l'avvicendamento dei giovani nel lavoro.
Per quanto riguarda la forma,preferisco non dire niente di particolare,ho letto e capito tutto quanto e questo è l'importante.
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Insomma decisamente una bella storia.
Domanda: Ma non è che nel tuo girovagare per Londra hai beccato anche i Pink Floyd di Syd Barrett?
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Re: Commento
Domanda: Ma non è che nel tuo girovagare per Londra hai beccato anche i Pink Floyd di Syd Barrett?
[/quote]
Ciao,
ebbi la possibilità di assistere al concerto al Royal Festival Hall nell'aprile del 1969, ma era l'anno degli esami della maturità e i miei mi vietarono di volare ancora una volta a Londra. Tieni presente che di viaggi a Londra ne avevo già fatti almeno una mezza dozzina, per fortuna con la Student Card. In seguito, causa impegni di lavoro, non mi fu mai più possibile avere le ferie nelle date opportune. Ho sfiorato il concerto all'Arena di Verona, ma non ce l'ho fatta. Peccato!
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Re: Commento
Prendo nota delle tue preferenze e con la prossima gara invierò un racconto diverso. Grazie della lettura.RobertoBecattini ha scritto: ↑18/04/2022, 23:49 non mi ha emozionato come avrei voluto. Formalmente impeccabile.
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Re: Commento
Prendo nota delle tue preferenze e con la prossima gara invierò un racconto diverso, spero più gradito. Ormai ho capito che i "Bravi Autori" hanno grande rispetto soprattutto per i racconti "impegnati" del genere storico, magari tra realtà e finzione, salvo poi non leggerli e valutarli.
Grazie della lettura.
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ma questo non mi impedisce di apprezzare la descrizione e l'istoriato.I personaggi sono descritti bene e l'insieme è interessante.
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Commento a Una sera al Roundhouse di Camden
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Re: Commento a Una sera al Roundhouse di Camden
Il racconto è stato scritto con il cuore, soprattutto la parte del concerto vero e proprio. Io ero l'ha e certe emozioni non si dimenticano mai. Rispondendo a un altro gradito commento a questo racconto qui su Bravi Autori, da parte di una nota scrittrice professionista (indovina chi è?), mi sono lasciato sfuggire che all'epoca ero un diciottenne. Considera che il concerto è del 1968, quindi il calcolo della mia età è presto fatto. E così ho forse risposto anche alla tua frase; "Non perché ritengo che tu sia arrivato", se ho ben afferrato quello che intendevi.
Grazie di tutto. Alla prossima.
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Re: Commento a Una sera al Roundhouse di Camden
Non mi riferivo all'età ma al voto.La scrittura, o meglio la passione per la scrittura,non ce l'ha. Per questo non l'ho messa, e nemmeno la professione. Mi piacerebbe essere giudicata per le parole e non per altro. Utopistico? Forse. Alla prossima.Alberto Marcolli ha scritto: ↑28/04/2022, 17:17 Il racconto è stato scritto con il cuore, soprattutto la parte del concerto vero e proprio. Io ero l'ha e certe emozioni non si dimenticano mai. Rispondendo a un altro gradito commento a questo racconto qui su Bravi Autori, da parte di una nota scrittrice professionista (indovina chi è?), mi sono lasciato sfuggire che all'epoca ero un diciottenne. Considera che il concerto è del 1968, quindi il calcolo della mia età è presto fatto. E così ho forse risposto anche alla tua frase; "Non perché ritengo che tu sia arrivato", se ho ben afferrato quello che intendevi.
Grazie di tutto. Alla prossima.
Re: Una sera al Roundhouse di Camden
Poi le cose andarono diversamente; ma questa è un'altra storia.
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Il tuo racconto mi ha fatto tornare, indietro a tempi lontani, quando da ragazzini ascoltavamo Radio Lussemburgo e non potevamo che fare tristi paragoni col panorama musicale locale e pendevamo dalla labbra di quelli più grandi che ci raccontavano di viaggi e concerti in giro per l'Europa e anche più in là.
Personalmente, a Londra ci andai solo più tardi, quando già l'ondata beat e rock era passata anche se si cercava di tirar in qualche modo a campare sugli allori. Per questo il racconto mi ha emozionato, Per questo e perché è scritto bene, con descrizioni di personaggi e situazioni come quadri immediati… mi sono quasi sentito fisicamente sul posto. E anche se non è bello, devo dire che ho provato pure un po' di invidia…
Ancora grazie per il viaggio che mi hai fatto fare
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Re: Commento
Ho messo in cantiere il racconto del concerto al Piper di Milano di Jimi Hendrix, perché anche a Milano non si scherzava in quegli anni. Io c'ero e vorrei riuscire a trasmettere le emozioni che provai in mezzo a quella bolgia di quattromila persone. Ero praticamente a due metri da lui e chissà se esiste qualche foto in bianco e nero in cui mi si vede con il mio amico Andrea.Ilsestogatto ha scritto: ↑16/05/2022, 17:03 Grande!
Il tuo racconto mi ha fatto tornare, indietro a tempi lontani...
Per ora ci sono solamente tre pagine del diario che tenevo e nel quale annotavo i più memorabili concerti. Se penso che quel ragazzo magro e incontenibile sarebbe morto dopo due anni, mi vengono ancora i brividi.
Commento
A Londra andai nel '74 con la scuola, ricordo ancora Carnaby street lastricata di disegni vagamente psichedelici. Non sono mai stato un appassionato di musica (preferivo il calcio), però questi racconti hanno il potere di risvegliare dei ricordi (veri o falsi?) degli anni che ho vissuto anch'io, avendo come colonna sonora le canzoni descritte qui.
Forse è solo un'illusione, però sono convinto di essere stato più fortunato (almeno da questo punto di vista) rispetto agli adolescenti di oggi.
- Alberto Marcolli
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Re: Commento
tutto vero, mannaggia. Formidabili quegli anni, dice Capanna. Come sappiamo non furono tutte rose e fiori, anzi, le spine non mancavano e presto si rivelarono in tutto il loro dolore. Ma è pur vero che a diciott'anni non ci si pensava e si andava incontro alla vita con tanta, tantissima incoscienza.
Ho già detto che ho in cantiere il racconto incentrato sul concerto di Jimi Hendrix al Piper di Milano in quello stesso anno. Anche li fu una storia pazzesca, con il concerto del pomeriggio cancellato. Gli strumenti dei musicisti bloccati in dogana a Malpensa alla ricerca di droga nelle casse acustiche e nella batteria, così ci dissero, non so se fosse vero. E noi ragazzi, rifiutato il rimborso del biglietto, ci siamo accalcati in un locale certo non molto grande, dopo almeno sei ore di attesa in piedi, per il concerto serale. Io ero li, Jimi Hendrix a due metri e non me lo sarei perso per tutto l'oro del mondo!
Dovevo essere a casa intorno alle otto di sera, invece a mezzanotte ancora non ero rientrato. Come sai non era semplice avvisare i genitori di un ritardo, so che la televisione forse qualche cosa aveva detto, ma mio padre, uomo di altri tempi, parti in macchina per venire a vedere cosa cavolo era successo, non so come mi individuò e non ti dico quante me ne disse. Da buon genitore, però, portò a casa anche il mio amico e altre due ragazze che, cosa vuoi? avevamo agganciato al concerto. Allora le cose andavano così! Oggi non ci capisco niente. Sempre con il cellulare in mano e poi?
Il Bestiario del terzo millennio
raccolta di creature inventate
Direttamente dal medioevo contemporaneo, una raccolta di creature inventate, descritte e narrate da venti autori. Una bestia originale e inedita per ogni lettera dell'alfabeto, per un bestiario del terzo millennio. In questa antologia si scoprono cose bizzarre, cose del tutto nuove che meritano un'attenta e seria lettura.
Ideato e curato da Umberto Pasqui.
illustrazioni di Marco Casadei.
Contiene opere di: Bruno Elpis, Edoardo Greppi, Lucia Manna, Concita Imperatrice, Angelo Manarola, Roberto Paradiso, Luisa Gasbarri, Sandra Ludovici, Yara Źagar, Lodovico Ferrari, Ser Stefano, Nunzio Campanelli, Desirìe Ferrarese, Maria Lipartiti, Francesco Paolo Catanzaro, Federica Ribis, Antonella Pighin, Carlotta Invrea, Patrizia Benetti, Cristina Cornelio, Sonia Piras, Umberto Pasqui.
BReVI AUTORI - volume 1
collana antologica multigenere di racconti brevi
BReVI AUTORI è una collana di libri multigenere, ad ampio spettro letterario. I quasi cento brevi racconti pubblicati in ogni volume sono suddivisi usando il seguente schema ternario:
Fantascienza + Fantasy + Horror
Noir + Drammatico + Psicologico
Rosa + Erotico + Narrativa generale
La brevità va a pari passo con la modernità, basti pensare all'estrema sintesi dei messaggini telefonici o a quelli usati in internet da talune piattaforme sociali per l'interazione tra utenti. La pubblicità stessa ha fatto della brevità la sua arma più vincente, tentando (e spesso riuscendo) in pochi attimi di convincerci, di emozionarci e di farci sognare.
Ma gli estremismi non ci piacciono. Il nostro concetto di brevità è un po' più elastico di un SMS o di un aforisma: è un racconto scritto con cura in appena 2500 battute (sì, spazi inclusi).
A cura di Massimo Baglione.
Contiene opere di: Fausto Scatoli. Giorgio Leone, Annamaria Vernuccio, Luca Franceschini, Alphaorg, Daniel Carrubba, Francesco Gallina, Serena Barsottelli, Alberto Tivoli, Giuseppe C. Budetta, Luca Volpi, Teresa Regna, Brenda Bonomelli, Liliana Tuozzo, Daniela Rossi, Tania Mignani, Enrico Teodorani, Francesca Paolucci, Umberto Pasqui, Ida Dainese, Marco Bertoli, Eliseo Palumbo, Francesco Zanni Bertelli, Isabella Galeotti, Sandra Ludovici, Thomas M. Pitt, Stefania Fiorin, Cristina Giuntini, Giuseppe Gallato, Marco Vecchi, Maria Lipartiti, Roberta Eman, Lucia Amorosi, Salvatore Di Sante, Valentina Iuvara, Renzo Maltoni, Andrea Casella.
Human Takeaway
(english version)
What if we were cattles grazing for someone who needs a lot of of food? How would we feel if it had been us to be raised for the whole time waiting for the moment to be slaughtered? This is the spark that gives the authors a chance to talk about the human spirit, which can show at the same time great love and indiscriminate, ruthless selfishness. In this original parody of an alien invasion, we follow the short story of a couple bound by deep love, and of the tragic decision taken by the heads of state to face the invasion. Two apparently unconnected stories that will join in the end for the good of the human race. So, this is a story to be read in one gulp, with many ironic and paradoxical facets, a pinch of sadness and an ending that costed dearly to the two authors. (review by Cosimo Vitiello)
Authors: Massimo Baglione and Alessandro Napolitano.
Cover artist: Roberta Guardascione.
Translation from Italian: Carmelo Massimo Tidona.
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Nota: questo libro non proviene dai nostri concorsi ma è opera di uno o più soci fondatori dell'Associazione culturale.
Calendario BraviAutori.it "Year-end writer" 2020 - (a colori)
A cura di Tullio Aragona.
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Calendario BraviAutori.it "Writer Factor" 2016 - (in bianco e nero)
A cura di Tullio Aragona.
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Gara d'autunno 2020 - Beu, e gli altri racconti
A cura di Massimo Baglione.
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