La strada
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La strada
Sembravamo due fuggiaschi, sebbene non ci fosse niente da cui scappare.
Camminavamo da una mezz’ora, forse, e ancora non avevamo capito cosa stesse succedendo.
All’inizio Franz e io ci eravamo guardati ridendo, poi perplessi, poi spaventati. Ma ormai non ci guardavamo più. Tenevamo gli occhi fissi sulla strada, senza parlare, sperando in una deviazione, un punto d’arrivo, l’incontro con un’anima qualsiasi.
Niente. Non c’era niente. Non una persona, niente case, niente luci, né vicine né lontane. Solo campagna, ovunque.
Terra smossa alternata a coltivazioni, con qualche albero isolato che esaltava la monotonia del paesaggio anziché spezzarla.
E la nebbia.
La strada non aveva svincoli, solo qualche ansa leggera che assecondava la natura del terreno. Sembrava non finisse mai. A un certo punto ho pensato che neanche avesse un inizio, che servisse solo a spaccare in due nebbia e campi.
C’era qualcosa di stonato, fuori luogo, che mi disturbava, ma non riuscivo a capire cosa.
Tirava una fredda brezza autunnale, c’era aria di pioggia.
Oltre a ciò, i nostri orologi si erano fermati.
Tutti e due.
Segnavano entrambi un’ora di metà mattina, per quello che può valere ciò che ti dice un orologio fermo. Il cielo non aiutava a capire; in quella zuppa di nebbia e nubi era impossibile distinguere dove finisse l’una e cominciassero le altre.
Eppure quel giorno eravamo partiti da casa nostra, in paese, con un sole smagliante.
E la voglia di una giornata in motocicletta. Liberi e soli, ognuno con la propria fedele compagna a due ruote, amavamo quel modo di perdere tempo, di non avere meta, obbedendo solo all’impulso di fermarci quando volevamo, di andare se volevamo andare.
Meno di un’ora dopo, in aperta campagna, l’improvviso banco di nebbia ci aveva costretto a rallentare. Cinque minuti ad andatura da bicicletta, poi le moto si erano spente.
Insieme.
Non c’era stato verso di farle ripartire.
Ci grattavamo la testa e ci chiedevamo quante possibilità ci fossero che succedesse una cosa del genere. Alla fine ci eravamo rassegnati a lasciarle lì, sul bordo della strada, e a cercare un meccanico. O un telefono, visto che i cellulari non avevano campo. È stato quando abbiamo controllato gli orologi per vedere se avremmo trovato officine aperte che ci siamo accorti che erano fermi anche quelli.
Ci fu un attimo di smarrimento. Andammo avanti in silenzio.
Conoscevamo la zona. Sapevamo che doveva esserci un borgo industriale – capannoni, poche case e i servizi essenziali – ma a questo punto avremmo dovuto incontrarlo.
«L’abbiamo passato» aveva detto Franz.
«No, è più avanti, subito dopo una curva» avevo risposto.
«Quale curva?»
Già, quale curva? La strada che ricordavamo ne era un susseguirsi continuo, questa tirava dritto al nulla. Ecco cosa stonava.
È stato allora che è arrivato il panico. Un panico tranquillo, comunque. Un byker non si mette a frignare come un ragazzino. Però torna indietro alla svelta, dalla sua moto che non tradisce.
Neanche l’ombra, delle moto.
Questo sì che ci aveva steso.
Seduti sul ciglio della strada, immobili come tutto il resto intorno a noi, come gli orologi, come i cellulari. Ecco come ci eravamo trovati. C’era solo il freddo, la nebbia e quel silenzio che premeva sui timpani.
Non saprò mai dire quanto tempo trascorremmo così. Ogni tanto uno di noi si alzava, solo per rendersi conto che nessun passo aveva senso, in nessuna direzione.
Poi, finalmente, qualcosa cambiò.
Una luce. Davanti a noi apparve prima un bagliore fioco, stemperato dalla nebbia. Poi una macchia più grande che divorava la foschia, fino a diventare luce profonda.
Sì, profonda.
A ripensarci adesso, di sicuro Franz e io non dovevamo avere un’espressione intelligente. A bocca aperta non riuscivamo a parlare, e quanto a muoverci… beh, s’era capito che era inutile. Scappare? E dove?
La luce avanzava e cancellava tutto: strada, alberi, campagna. Forse era lei che si era mangiata le moto, e adesso avrebbe inghiottito anche noi.
“Va bene, basta che ritrovo la mia due ruote” ricordo che pensai prima di venire invaso dal chiarore.
Già. Invaso.
Che strana sensazione, come essere violato nell’intimo e, al contempo, violare qualcosa di superiore. Prima di perdere conoscenza.
Mi svegliai per il fastidio agli occhi. Franz era accanto a me. Anche lui si premeva le dita sulle palpebre.
Il sole. C’era di nuovo il sole.
E la nostra strada di campagna piena di curve con le moto a un centinaio di metri da noi.
Controllammo le tute, ci toccammo la faccia, ci esaminammo a vicenda. Sembrava tutto a posto.
Le nostre amiche partirono al primo colpo, gli orologi segnavano mezzogiorno e le lancette dei secondi si muovevano come di norma. I cellulari erano sempre senza campo.
Percorremmo un tratto di strada respirando un’aria normale, registrando con sollievo il consueto squallore dei depositi industriali del borgo che avevamo cercato inutilmente. Respirando e basta.
Ci fermammo in un’osteria, più per parlare che per mangiare, ma mangiammo di gusto e parlammo poco.
«Che cazzo è successo, Franz?»
«Abbiamo visto la luce» rise.
La cosa buffa era che non riuscivamo a dire più di tanto. Non come avremmo dovuto o come avremmo voluto. Provavamo entrambi uno strano ritegno, e la sensazione di vivere più lenti, a venti centimetri da terra come quella nebbia del cavolo.
«Non andare a dirlo in giro.»
«Non ci penso nemmeno.»
A dire cosa, poi? Che avevamo trovato nebbia? E allora? Che ci eravamo persi? A mezzora da casa? Non siamo tipi che si mettono a spiegare l’inspiegabile, a fare la figura dei toccati.
Eppure, sulla via del ritorno ci prese una strana malinconia. Avremmo trovato ancora quella strada, quella nebbia, quella luce?
No. Nessuno di noi due lo credeva. Qualcosa, fra il naso e la gola, somigliava alla nostalgia, a un’occasione persa.
Ci rendemmo conto, col tempo, che il mistero ci aveva cambiati. In maniera indefinibile, ma lo aveva fatto. Qualcosa era entrato in noi e qualcosa di noi era stato preso, risucchiato.
Questo, sentivamo.
Perché eravamo due che avevano camminato in quella nebbia, che avevano visto quella luce.
Gli altri non lo sapevano, ma noi sì.
Noi e le nostre moto.
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grazie, IsabellaIsabella Galeotti ha scritto: ↑04/04/2019, 9:00 Titolo semplice. L'ho letto in un baleno, sono abitutata alla nebbia, sono nata nella nebbia. Quindi mi ci sono trovata bene in questo racconto. Sono motociclista, per cui capisco cosa vuol dire abbandonare la creatura, e dover proseguire a piedi, lasciando la tua moto abbandonata sul ciglio della strada, che per giunta viene avvolta immediatamente dalla nebbia. Proseguire a piedi, con l'abbigliamento tecnico ed il casco...impresa impossibile, infatti quì entriamo nella terza dimensione. Il non essere il non esistere. Per fortuna il protagonista, che è un peccato non abbia un nome, non è solo. Non continuo sarebbe un delitto per chi deve ancora leggere questa storiella. Già i motociclisti, che si salutano con due dita, che alzano il piede, oramai rari. Credo che questi due amici non si lasceranno mai. Dopo tutta questa premessa, esprimo il mio giudizio verso questo brano. Non è avvincente come i tuoi soliti racconti, ma è scorrevole e piacevole. Mi piacerebbe ci fosse un seguito.
è una vecchia storia di anni fa, riveduta e corretta per l'occasione
ho sempre avuto la moto, e il saluto con le dita era una specie di obbligo, ma noto con dispiacere che ormai è abbandonato.
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ciao, LauraLaura Traverso ha scritto: ↑04/04/2019, 18:53 Tra "il sogno e son desto" Franz e le moto (mi sono venuti in mente i nazisti, avrei scelto un altro nome...), il racconto scorre ordinato e senza refusi. Il contenuto però, non mi ha coinvolto, pur essendo narrato bene, come ho già detto.
Franz è il nomignolo di un mio amico (Franzini, in realtà), non pensavo potesse portare ai nazisti
peccato non averti coinvolto, magari ci riuscirò la prossima volta
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Unico appunto formale: è biker e non byker.
PS. A me Franz fa venire in mente il marito della principessa Sissi
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A mio parere, però, ci sarebbe qualcosa da rivedere nella forma, mi sembra che i tempi verbali di alcune frasi non concordino con quelli di altre.
Una considerazione sul finale: i due protagonisti escono cambiati da questa strana esperienza, ma i “segni” di questo cambiamento sono poco evidenti. Ovviamente capisco l’esigenza di lasciare le sensazioni in sospeso, senza dover razionalizzare tutta la vicenda, ma mi manca qualcosa che spieghi meglio in che modo vengono mutati da questa storia.
Comunque, ribadisco, non male.
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A presto.
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Re: Commento
hai ragione, è bikerMarco Daniele ha scritto: ↑04/04/2019, 22:34 L'etichetta che mi viene istintivamente da affibbiare a questo racconto è "realismo magico", perché sei capace di far irrompere in maniera egregia una dimensione che potremmo definire sovrannaturale (o comunque non-normale, rimane il mistero su cosa sia effettivamente successo e questo mi piace molto) nella realtà dei due motociclisti: la nebbia, il tempo che sembra fermarsi, la sparizione delle moto (che per un motociclista dev'essere un sacrilegio immagino), la luce... e alla fine c'è quella nota di malinconia, di tristezza che trasmette l'idea di aver solo sfiorato e mai raggiunto effettivamente il mistero.
Unico appunto formale: è biker e non byker.
PS. A me Franz fa venire in mente il marito della principessa Sissi
la storia vuole essere il resoconto di una sensazione sfiorata e non vissuta del tutto, della quale, forse proprio perché non completa, il protagonista sente nostalgia.
grazie del commento
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grazie del commento.Roberto Bonfanti ha scritto: ↑05/04/2019, 20:08 Il racconto mi piace, le descrizioni sono buone e adatte all'atmosfera della storia, il mistero è ben congegnato e poi ci sono le moto (sono motociclista anch’io e vedo che sono in buona compagnia).
A mio parere, però, ci sarebbe qualcosa da rivedere nella forma, mi sembra che i tempi verbali di alcune frasi non concordino con quelli di altre.
Una considerazione sul finale: i due protagonisti escono cambiati da questa strana esperienza, ma i “segni” di questo cambiamento sono poco evidenti. Ovviamente capisco l’esigenza di lasciare le sensazioni in sospeso, senza dover razionalizzare tutta la vicenda, ma mi manca qualcosa che spieghi meglio in che modo vengono mutati da questa storia.
Comunque, ribadisco, non male.
se devo essere sincero, non ho proprio pensato a dire qualcosa che spieghi meglio il cambiamento avvenuto.
può essere uno spunto per il futuro, grazie.
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grazie del commento.AACiola ha scritto: ↑11/04/2019, 19:05 Racconto che descrive molto bene l'angoscia e l'atmosfera in cui sono avvolti i due protagonisti del racconto. La nebbia fitta che si frappone tra i tuoi occhi e il resto del mondo a volte può effettivamente dare spiacevoli impressioni. Mi sembra forse un po' debole la parte finale ma il resto del racconto è piacevole.
in effetti, la nebbia è protagonista, proprio perché può dare sensazioni strane, anche di smarrimento.
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probabilmente hai ragione, il presente avrebbe creato più atmosferaNamio Intile ha scritto: ↑17/04/2019, 16:12 Beh, non è niente male. Quindi bravo. Però ritengo che il tempo passato che hai usato non funziona molto. Diminuisce la tensione, allenta la suspense. Io avrei adoperato il presente. Con il presente la chiusura finale, la parte meno riuscita del racconto, avresti potuto costruirla in modo più scorrevole e convincente.
A presto.
magari provo a sistemarlo.
grazie del commento
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Mi ha convinto meno la parte subito dopo l'introduzione, dove si spiega cos'è successo prima dell'arrivo della nebbia. Mi sembra meno spontaneo, più costruito, rende meno scorrevole la lettura.
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grazie per il commento.Selene Barblan ha scritto: ↑30/04/2019, 21:31 Ciao, ho apprezzato l'atmosfera che hai voluto dare al tuo racconto; nella descrizione iniziale e circa a metà del racconto trovo che hai saputo trasformare le parole in immagini. Trovo anche interessante il tema e lo svolgimento, anche se mi sembra che nel finale hai accelerato un pò.
Mi ha convinto meno la parte subito dopo l'introduzione, dove si spiega cos'è successo prima dell'arrivo della nebbia. Mi sembra meno spontaneo, più costruito, rende meno scorrevole la lettura.
non sei la prima che lo fa notare, quindi mi sa che avete davvero ragione
proverò a modificare qualcosa.
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A differenza di quanto ho letto in alcuni dei commenti precedenti, trovo che “La strada" sia addirittura superiore ad altre opere di Fausto, almeno in termini di potenzialità.
Non si è raggiunta una sintesi plastica tra gli elementi narrativi, ma sussistono le basi per affinarla.
Del resto, la perfezione non esiste, ma sulla perfettibilità si può lavorare.
Coraggio e in bocca al lupo per le prossime fatiche letterarie.
P.S. Esprimerò il voto dopo attenta rilettura.
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256K
256 racconti da 1024 Karatteri
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