Rubis

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Antonella martino
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Rubis

Messaggio da leggere da Antonella martino »

Io la guardavo seduta in quella sala d’ aspetto seduta al suo fianco senza avere il coraggio di dire nulla, la guardavo e sentivo che era ovunque ma non li. Le toccai la mano per stabilire un contatto e lei sussultò, girò il viso verso me e allora notai i suoi occhi arrossati. Probabilmente aveva pianto tutta la mattinata e forse anche i giorni precedenti da quando, il venerdi, aveva ritirato i risultati di quell’esame beffardo. Sapevo benissimo cosa le avrebbe detto la dottoressa ma finsi di ignorare tutto perché non avevo idea di come dirglielo. Cosi avevo deciso di tacere. E avrei voluto che tutto il mondo lo facesse, quasi come in un rito scaramantico, come se il silenzio le avesse potuto donare la guarigione. Ma non era cosi perché quando Qualcuno lassù scrive il nostro destino lo fa fregandosene dei pugni in faccia che ci tira. Da quando un anno prima aveva scoperto quella “strega maledetta”, cosi chiamava il suo tumore, molte cose aveva affrontato e io mi ero accorta che lo faceva perdendo mese dopo mese, dopo le chemio, l’intervento e i tanti esami, quella gioia che aveva nel cuore e che aveva nonostante tutto. Il giorno del suo ricovero per asportare “la strega” aveva guardato in faccia il dottore con grande convinzione disse: “ dottore io voglio vivere, a me la vita piace” e in quel momento compresi quanto fossi stupida e ingrata. Lì per lì mi chiedevo come facesse questa donna che aveva avuto momenti davvero difficili, a prescindere dalla malattia, a dire “ a me piace la vita” io che avrei fatto cambio con lei, pensavo, le avrei dato la mia vita perché credevo che non avesse valore e senso vivere senza la pace nel cuore. Ma quanto mi sbagliavo. Mentre mille pensieri mi affollavano la mente arrivò il suo turno ed entrammo veloci nella stanza della dottoressa. Sally si sedette di fronte, accasciandosi su quella sedia come se le mancassero le forze e io restai in piedi, come sempre, quasi a voler prendere le distanze in quei momenti perché avevo paura, eccome se ne avevo… nel giro di pochi minuti con fare quasi naturale la dottoressa ci aveva spiegato che aveva sviluppato un tumore metastatico ma non ero assolutamente riuscita a percepire che speranze nutrisse e Sally si era presa l’ennesima pugnalata. Ora toccava agire con altre terapie e di quello dovevamo discutere. Lasciai che la dottoressa terminasse il suo discorso poi presi Sally per un braccio e la portai via da quella stanza. Era sempre più pesante, stava perdendo completamente le sue forze e mi chiedeva in quei momenti di prendere il suo dolore e portarlo via. Se solo avessi saputo come fare, se solo fosse esistito un modo. Avevo passato gli ultimi mesi a chiedere a Google di tutto sui tumori, come nascono, perché, quali sono le predisposizioni, come sviluppano metastasi e ogni volta che arrivavo al finale sulle speranze di vita chiudevo la pagina, convinta che quella parte non avrebbe toccato nessuno che conosco nè tantomeno la mia cara Sally. Ma più il tempo passava, più capivo. E lo capivo nonostante i dottori parlassero con naturalezza e nonostante Sally alla fine cercasse di sminuire tutto. Fu dopo quel giorno che cominciai a chiedere quanto si sopravvive e sentirlo quantificare in mesi, non anni, mi raggelò il sangue nelle vene. Io non immaginavo la mia vita svuotata della sua presenza e in questo ero molto egoista ahimè ma era davvero una persona la cui presenza si faceva sentire. Ipotizzare che probabilmente a un anno da quel giorno lei non avrebbe potuto essere li con me era pesante, mi toglieva l’aria dalla gola. Mi sentivo cosi sola, sapevo di non poter fare niente eppure i giorni, le settimane, passavano mentre avrei voluto gridare ti prego aspetta, aspetta che si trovi una cura vera, aspetta che un giorno qualsiasi, di una settimana qualsiasi, ci alziamo e lei sarà sana, ma non mi ascoltava il tempo e nemmeno Dio. Mentre la consapevolezza cresceva dentro di me, Sally come sempre prendeva pugnalate, tornava a casa e dopo un giorno aveva già trovato una nuova versione molto più leggera. Il tumore era diventato una piccola lesione quasi insignificante e ci avrebbe convissuto per sempre. Doveva solo accettare di prendere antidolorifici per tutta la vita. Ma io ero piena di rabbia verso Dio e la vita, le chiesi più volte cosa fosse per lei la morte credendo che custodisse una sorta di segreto, che percepisse Dio molto più di me. Ma Sally non pensava ancora a questo, era necessario per non lasciarsi morire.
Resilienza, quella donna ne era il ritratto perfetto.
Ero del tutto impreparata ad accettare e vivere con lei la fine e mi muovevo come se fossi bendata, facendo spesso molti passi sbagliati. Anche io avevo bisogno di qualcuno che mi aiutasse in quel periodo ad essere migliore ma la verità era che ero sola e per quanto dicessi a tutti che Sally aveva bisogno di tutti noi io mi sentivo di respirare la sua aria, il suo dolore, la sua incomprensione e solitudine. Però so anche di aver fatto tanto, il meglio che potessi, ed è per me l’unica consolazione. Quante volte siamo scese da quell’ospedale, a volte dopo giornate davvero pesanti, con le lacrime agli occhi per aver riso troppo e quanto cavolo era bella in quel tubino nero e gli stivaletti, era una piccola bambolina. Sally era cosi, mi strappava sempre una risata, faceva in modo di aprirmi il cuore e mi diceva soddisfatta “sono contenta che oggi ti ho fatta sorridere”. Quella donna era la sorgente della vita e io attingevo continuamente. Non passava sera senza che non mi dasse la buona notte dicendomi quanto mi voleva bene e più i giorni passavano più coglievo occasione per dirle ti amo. E ahimè, l’ amavo molto. Avrei voluto per lei un mondo diverso, una vita diversa e persone più belle invece di quel vuoto fitto di dolore. Mi sono rivista in tanti suoi pianti prima che quel calvario iniziasse e avevo voglia di darle la mia mano sebbene spesso mi sia costata l’intero braccio ma ora, dopo un anno, io non capivo come viveva e come poteva accettare. Nelle sere seguenti fu un fiume in piena, andare a dormire con la consapevolezza che non sarebbe andata bene toglieva il respiro. Smise di mangiare e cominciò e vagare quasi nell’idea che stare ferma l’avrebbe portata presto alla morte. E io le mie notti le passavo a pensare, a piangere e in quei pochi frangenti di sonno ad avere incubi. La seconda mattina mi chiamò ben presto tra un singhiozzo e l’altro mi disse “ti prego non lasciarmi” come se fosse una cosa possibile, ero io a chiederle di non lasciare me, le sue bimbe e nessuno. Fu una mattina davvero vicina a Dio, andai da lei trovandola a girovagare per casa senza pace. Non avevo parole, spesso non ne ho avute, ma quella mattina percepivo cosi tanto il suo terrore che mi spaventò bloccandomi. L’abbracciai passando una buona decina di minuti a piangere con lei. Mi resi conto che non avrei potuto nulla mai contro il tempo, quello stare ferma li non mi avrebbe permesso di nasconderla agli occhi di Dio e del suo destino. La mia impotenza era disarmante. Ma c’ era un’unica cosa che potevo fare, vivere. Cosi le imposi di infilarsi scarpe e giubbino e uscimmo a respirare aria. Il mondo quella mattina aveva un altro sapore, molto più semplice, essenziale. Un sapore che ho assaggiato poche volte cosi e ogni volta mi stupiva ma ora, forse, ancora di più. Era una mattina soleggiata e percorrere le strade del mio paese con lei accanto, minuta, terrorizzata, mi faceva sentire piccola. Mentre guidavo mi disse “andiamo a confessarci, ora sono pronta, andiamo questo sabato” poi disse voglio chiamare due persone e parlare con loro. Iniziò la prima chiamata raccontando cosa aveva adesso e la concluse dicendo “ amiamoci e rispettiamoci ora che siamo in vita” e li capii che era iniziato un percorso di rassegnazione. Il bene che vogliamo alla gente che ci accompagna nel nostro percorso o solo in alcuni tratti alla fine emerge dimenticando tutto il resto, un po’ come avevo fatto io con lei ora lei perdonava tutti quelli che l’avevano ferita e in quel momento fece pace con se stessa. Non esistono persone perfette ma solo persone migliori di quello che erano prima. E il perdono ci rende migliori. Ma lei per me fu l’ultimo gradino verso una me stessa migliore. Li ho giurato che non avrei perdonato o scusato più nessuno perché investire i propri sentimenti nelle aspettative che abbiamo verso gli altri è quanto di più deleterio ci sia.
Mi fermai al sole, era una mattina di ottobre con un caldo tepore sulla pelle. Lei fissava fuori, ogni tanto scuoteva la testa e piangeva. Le carezzai la mano promettendo che sarebbe andata bene perché non potevo vederla cosi. Le raccontai una bella bugia, sminuii tutto confidando in un medicinale miracoloso.
I giorni passavano, nonostante tutto, nonostante la pesantezza dei minuti e l’insignificante perdere tempo. Sentivo tra le mie mani il lento scorrere dei granelli di sabbia di una clessidra e avevo paura di stringere le mie mani per restare con miseri granelli. Ma ci sarei arrivata a quel giorno in cui tutto ciò che avrei avuto sarebbero stati solo secondi. Ora lo sapevo che significava iniziare un percorso di rassegnazione e capivo anche che infondo Dio stava rendendo tutto più facile a noi che le stavamo vicini. Ma non a lei. Le iniziavo a leggere negli occhi il dolore dell’anima e la disperazione. Come si va incontro alla morte? Come si accompagna una persona che si ama a quel punto? Le mie serate le passavo a chiedere a Google domande simili alternandole a domande sulla possibilità di sopravvivenza che abbandonavo non appena mi rendevo conto che non erano alte.
Ora doveva iniziare un nuovo farmaco, un antitumorale e abbandonare le chemio che a quanto pare non avevano alcun effetto su di lei. Sarebbe stato Natale. A giorni alterni lo spettro della fine si faceva sempre più presente e io sentivo con certezza che sarebbe stato l’ultimo Natale. Uno di quei giorni, in una delle sue telefonate disperate in cui era un fiume in piena mi disse che avrebbe voluto che quel Natale lo passassimo insieme. Mi sembravano gli ultimi desideri ma più la fine si concretizzava più sentivo di non essere pronta. Anche perchè avevo fatto una promessa a me stessa se lei fosse andata via e io non ero pronta a nulla. Mi sono sforzata di essere forte, bugiarda e sicura di me stessa quando sminuivo gli eventi. Di solito la vita è cosi, se entri nella parte e reciti alla perfezione un copione tutto il resto va di conseguenza ma qui avevo fatto i conti proprio male. Poi ad un certo punto qualcosa cambiò dentro di me, dopo essermi dipinta sul viso la maschera della donna forte diventai davvero tale e come per miracolo anche Sally ebbe un periodo di ripresa. Ci influenzavamo a vicenda, eravamo due ballerine sotto la pioggia e a fasi alterne una tirava l’altra. Smisi di piangere, smisi di sentire il macigno sul cuore e sullo stomaco. Si dice che il cancro fa terra bruciata attorno a se, distrugge tutto. Non è mica vero, il cancro aveva aperto i nostri occhi, liberato la nostra mente da inutilità, ci aveva donato una sensibilità che dovremmo custodire gelosamente in una cassa di ferro per tutta la vita, ci aveva presentato il “perdono” come atto di liberazione, come atto dovuto verso se stessi, aveva liberato le nostre vite dalla falsità e dall’odio e anche se non mi aveva colpita direttamente era una situazione che non potevo evitare. Dopo aver concepito la mia vita in modo diverso cominciai a chiedere molto di più alla gente che voleva entrare o restare nella mia vita e se fino ad allora era stata una persona molto selettiva nei rapporti umani ora lo ero ancora di più. Fu per me un importante passo di crescita. Arrivarono i risultati della risonanza e furono impietosi: altre 3 metastasi questa volta ad un nuovo organo. E vabbè oramai si era ben capito che non sarebbe stata una lotta facile ma di certo nessuno aveva la minima intenzione di arrendersi. Sally stava bene fisicamente, all’apparenza intendo, e questo fatto di non sentirlo il tumore era un punto a suo vantaggio.
Come tutti gli anni arrivò il Natale. La piazza del paese luccicava, le case luccicavano. Era Natale ma sotto l’albero non c’era nessun regalo. Ma lei era pronta a farselo da sola. Forte e bella più di sempre riuscì a vivere anche quel giorno con l’estrema voglia di vivere che la contraddistingueva. Ma arrivarono le notti, le sere buie e solitarie e la paura cominciava a prendere il sopravvento, si impadroniva dei cuori come un’ombra che pervade e inonda l’anima. Per me non fu più “ facile “, se mai lo fosse stato. Da quel mese, ricordo benissimo, persi la mia pace, vedevo ovunque morte e malattia, percepivo il mio essere piccola e inutile, una caratteristica di tutto il genere umano che con nessuno faceva eccezione. Quelle stanze di ospedale le rivivevo ogni notte, Rubina nel suo letto a chiedermi aiuto, a cercare e scrutare nei miei occhi supporto e io maledettamente incosciente lo facevo nel modo più semplice in cui potessi farlo ignara del fatto che avrei perso la pace di li a poco. Ancora oggi mi immagino seduta con lei accanto nell’ambulatorio della dottoressa che la seguiva ad ascoltare cose che nessun essere umano dovrebbe mai udire, anche se con il massimo tatto. E ancora oggi piango, piango adesso che mi è rimasta solo la sua foto sul camino, io e lei sorridenti, immortalate nell’eternità. So bene di essere stata solo una spettatrice di quel calvario, che il grande dolore non era affatto il mio ma ho scoperto una cosa: nella vita non si deve essere sempre per forza forti, perché la benedetta storia di dipingersi sul volto una maschera e andare avanti non funziona sempre, i bordi si staccano, alla fine un pezzo di anima fuoriesce e resta in preda del dolore. All’inizio di questa storia mi chiedevo se avrei dovuto imparare qualcosa da tutto questo, perché infondo io e Sally eravamo solo due amiche, non ci legava un dovere familiare, assolutamente no, quello per me non è mai stato vincolante. Sally era diventata la mia amica e io tutto posso accettare ma mai che una persona soffra in solitudine. O meglio, potevo accettarlo. Antonella è morta con Sally, è stata sepolta sotto quel cumulo di terra, sotto terra, li con lei. Rivivo le sue compagne di sventura, di ogni età e di ogni razza, rivivo la scena di una ragazza poco più che ventenne, di origine sudafricana, ricoverata in quel reparto, sola, senza i suoi familiari, seguita da alcune suore e Sally ogni volta che io tornavo a casa andava sempre a farle compagnia. Un giorno morì, sola, giovane e sicuramente molto triste. Rivivo la storia di un ragazzo quasi trentenne, morto dopo infinte terapie e interventi, che caro quel ragazzo, Sally gli voleva molto bene, morì un po’ di tempo dopo di lei. E lo so che c’è gente che queste cose che le vive quotidianamente ma io non potevo farlo più. Percepivo in quei momenti la forte presenza di Dio, Lui si stata mostrando e io invece di capire avevo paura. I mesi dopo quel Natale sono stati di una follia totale tanto da togliermi il fiato, l’aria nella gola perché se c’era un senso a quel dolore io non lo avevo ancora capito e a dirla tutta non l’ho capito ancora adesso.
Arrivò aprile, era il giorno di Pasquetta e Sally mi chiamò per dirmi che il medico l’aveva ricoverata, andai subito da lei e ho impressa nella mia testa il suo viso stanco, distesa sul letto, senza parrucca e sola. Quella donna stava per affrontare la morte, era sola ed io ero incazzata con tutti per questo. Nevicò quella settimana, era aprile da qualche parte ma li era pieno inverno e un Dio impietoso ce lo dimostrava cosi. Fu una settimana orrenda, andò sempre peggio fino agli ultimi giorni quando sembrò migliorare e dentro di me speravo che ce l’avrebbe fatta anche questa volta, ricordo che il medico mi disse quanto la situazione fosse grave e io con il sorrisino di chi è stata spettatrice di un vulcano gli dissi “no, caro dottore, Sally è stata molto peggio di cosi, si sta riprendendo”, lui alzò le spalle e andò via, in quel momento pensai che si fosse reso conto della cantonata che aveva preso e invece capii dopo un paio di giorni che la cantonata l’avevo presa io, dritta sul volto. Il mio appiglio in quei giorni furono le telefonate della dottoressa che seguiva Rubi. Poco tempo prima le avevo chiesto di dirmelo quando sarebbe arrivata alla fine, di essere il più possibile chiara e cosi fu. Ma restava sempre uno spiraglio di speranza per me, Sally amava tanto quella dottoressa e posso capirlo il bisogno di mettersi nelle mani di qualcuno che potrebbe salvarci, lei poi è stata davvero una donna sensibile in quel mondo fatto di pazienti che a volte diventavano solo numeri. Passò una settimana, era domenica, quel pomeriggio decisi di fare un salto in ospedale con la promessa che le avevo fatto che l’avrei portata in giro con la sedia, non era uscita affatto dalla stanza in una settimana ma negli ultimi giorni sembrò riprendersi quindi ero fiduciosa. Appena entrata nella stanza mi resi conto di non aver capito nulla ancora, c’erano sua mamma e sua sorella e lei non molto cosciente ma riuscì a guardarmi e ad accennare un sorriso, i miei occhi si riempirono di lacrime, avevo la nausea ma trattenni tutto e con gli occhi inondati mi avvicinai sorridendole e prendendole la mano. Non riuscivo a parlare, in realtà non riuscivo nemmeno a respirare. Nel giro di pochi minuti arrivarono altre persone e il mio panico saliva. Io avevo chiesto a Dio come si accompagna una persona alla fine della vita ma in realtà non sapevo neanche come comportarmi io. Stavo perdendo la persona che per due anni e mezzo aveva riempito le mie giornate e le mie notti, era una presenza continua e spesso, negli ultimi tempi mi era balenato nella testa la domanda “ come avrei vissuto senza di lei?” Oggi so come, con un vuoto straziante, ancora oggi. Era così confortante vedere tutta quella gente li con lei, finalmente non eravamo più sole. All’improvviso mi guardò e disse “ Antonella, ti voglio tanto bene”. Non trattenni più nulla, cominciai a piangere e a perdere i miei ultimi momenti di finta serenità. Morì nel giro di poche, lunghe, interminabili e sofferenti ore.
Ieri ho trovato un termine che credo sia davvero appropriato per descrivere quello che Sally mi ha lasciato, “lesione”, si mi sento lesionata da quel triste giorno di aprile, la mia ferita non si chiuderà mai e so bene che sono una donna non una bambina, che dovrei razionalizzare e capire a un certo punto ma non ho la più pallida idea di come farlo. Sally mi manca come l’aria, mi manca tutto, ogni minimo dettaglio, ogni particolare e non riesco a farmene una ragione. La nostra foto insieme è sul camino, ormai sbiadita ma non voglio cambiarla nè sostituirla con un’altra, per me lei lì è bellissima e io ero felice, lo eravamo davvero in certi frangenti perché ancora credevamo che tutto sarebbe finito bene, ancora eravamo libere dalla morte e dal dolore. Poi siamo state fatte prigioniere, lei sotto terra e io nel mio corpo e nella mia testa che non accenna a darmi pace. Ci ho provato a cambiare la mia vita, dopo la sua morte ho fatto cose diverse ma Sally me la sono portata sempre con me, basta una minima scusa per farmi riaffiorare il suo ricordo e raccontare a chiunque cosa avevamo vissuto insieme e cosa mi aveva lasciato. Avevo un bisogno enorme di vomitare quello che avevo dentro ma oggi posso accettare che non finirò mai quindi vorrei chiederti aiuto, se esiste un modo, ti supplico dammi il tuo aiuto, ne ho bisogno io adesso.
Dove sei R. mia…
Grazie per essere esistita e per aver incrociato la mia vita.
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Fausto Scatoli
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Messaggio da leggere da Fausto Scatoli »

anche questa è una storia triste, sia pure per motivi diversi da altre lette qui.
è una storia carica d'amore sincero, di riflessioni profonde, che offre tanti ottimi spunti a ogni lettore.
forse è un po' troppo lunga, ma è comprensibile, visto lo sfogo che contiene.
mi permetto di dire che ci sono alcune ripetizioni di troppo e che in alcuni punti la punteggiatura è da rivedere, quasi mancante.
per il resto, un abbraccio.
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Andrepoz
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Messaggio da leggere da Andrepoz »

Si percepisce una fortissima emozione in questo scritto, e quindi non è facile riuscire a dare una valutazione "oggettiva". Più che un racconto, è uno sfogo personale, molto sentito, e dinanzi a certi dolori forse la cosa migliore è rimanere in uno stato di rispettoso silenzio. Ti segnalo solo un "Non passava sera senza che non mi dasse la buona notte", perchè proprio "stona" nel leggerlo.
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Lucia De Falco
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Messaggio da leggere da Lucia De Falco »

Il testo è bello per la sincerità delle emozioni espresse. Sembra sia una vicenda comunque provata in prima persona, perché c'è un grande coinvolgimento. Andrebbe, però, un po' più curato nella punteggiatura, soprattutto aggiungendo delle virgole.
Mauro Conti
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Messaggio da leggere da Mauro Conti »

Molto arduo e difficile dare un giudizio sul contenuto. Forse un po' troppo personale anche se presenta la struttura del racconto.
Per i miei gusti esageratamente triste.
Formalmente, manca solo qualcosa in punteggiatura ma son bazzecole. Stilisticamente nulla da dire: "mano" senz'altro ottima. Anche se va da se che questo pezzo non è stato composto a questo scopo, ma non è certo un pezzo che ti rallegra la giornata.
Antonella martino
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Re: Rubis

Messaggio da leggere da Antonella martino »

Infatti lo scopo di questo scritto è stato quello di liberare l'anima e il cuore e in questo devo dire che ci sono riuscita.
È molto triste si ma è quello che sento e scrivere di sentimenti autentici è l'unico modo che conosco per trasmettere qualcosa.
Grazie per "mano ottima " 😉
Antonella martino
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Re: Rubis

Messaggio da leggere da Antonella martino »

Vorrei tanto portare a casa i miei lettori, in un viaggio con meno insidie e credo che ci proverò sperando che questo non mi tolga le emozioni che provo quando scrivo e che mi fanno sentire viva. Hai aperto il tuo commento con una citazione più che appropriata, grazie mille.
Selene Barblan
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Messaggio da leggere da Selene Barblan »

Racconto apprezzabile per la sincerità e il coraggio di esprimersi così liberamente, a ruota, senza freni. È inevitabile empatizzare con chi narra di così forti sofferenze. Secondo me andrebbe un po’ rivisto nella forma; anche la suddivisione dei paragrafi è per mio gusto un po’ troppo “monolotica” ma forse è voluta per dare il senso di “cascata” soffocante.
Simone_Non_é
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Messaggio da leggere da Simone_Non_é »

Ciao Antonella! Più che un racconto breve questa sembra essere una pagina di diario, una sorta di confessione o liberazione. Sicuramente il lettore si ritrova ad empatizzare molto con lo scritto, ora un po' per rispetto un po' perché non ho ben chiaro se sia vero o meno, non mi sento di aggiungere altro.
Interessanti alcuni spunti riflessivi.
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Con questo romanzo scopriremo in che modo un rivoluzionario viaggio nel Tempo darà il via a un innovativo sistema di colonizzare la Luna e, forse, l'intero Universo. Partendo dalla Terra con una macchina del Tempo, è possibile arrivare sulla Luna? In queste pagine vi sarà raccontato del lato "Tempo" di questa domanda. La parte "Luna" (qui solo accennata) verrà sviluppata più corposamente nel seguito di questo libro auto-conclusivo. L'autore ha cercato a lungo qualche riferimento a opere che narrassero di un crononauta che sfrutti il viaggio nel Tempo per raggiungere il nostro satellite naturale, ma non è riuscito a trovarne alcuna. Lo scrittore Giovanni Mongini (autore, tra le varie cose, dello splendido articolo "Viaggio al centro del tempo") lo ha confortato in tal senso, perciò si vuole concedere il lusso di indicare la sua persona come colei che ha inventato per prima questo tipo di viaggio Terra-Tempo-Luna. Concedeteglielo, vi prego, almeno per un po' di… tempo.
Di Massimo Baglione.

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