Il gioco delle parti
- Nunzio Campanelli
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Il gioco delle parti
Il settecentesco palazzo Conti, costruito dal capostipite dell’omonima nobile famiglia, che regalò all’umanità uomini di scienza, navigatori, vescovi e forse anche un papa, abitato dai suoi eredi per secoli, fu infine venduto all’asta dalle ultime generazioni per saldare i debiti che si erano via via accumulati. L’ultimo dei Conti, Federico, abitava uno degli appartamenti ricavati dalla suddivisione del piano nobile in decine di vani, preda della nuova classe emergente che ambiva calpestare quei pavimenti già percorsi dagli avi in passato, in occasione delle ricorrenze natalizie quando la famiglia Conti tollerava, in una sorta di epifania rovesciata, che una delegazione di contadini potesse accedere al palazzo recando con sé doni in quantità. Cinquant’anni, scapolo, Federico Conti viveva di rendita grazie al ricavato della coltivazione di alcuni poderi, ultima testimonianza di possedimenti agrari che in altri tempi avevano raggiunto dimensioni tali che oggi avrebbero rivaleggiato in estensione con quella di una prefettura . Almeno questo era quello che la gente si raccontava, la domenica per il corso, nelle poche volte che lo vedevano varcare la porta del Caffè Centrale, luogo privilegiato d’incontri di quella che fu definita la crema della società cittadina, ormai lisa e consunta come le tappezzerie dei divanetti impero del Caffè. Altri, che amavano incontrarsi di sera, dopo cena, nelle stanze del nuovo ritrovo alla moda della città, il Circolo Cittadino, dove le fortune dei soci si misuravano non più in ettari di terreno ma in metri quadrati di solai da pavimentare o, perlopiù, in quintali di ferro da trasformare in vomeri e seminatrici, se la raccontavano in maniera diversa, narrando di strani personaggi con occhiali scuri visti al suo fianco, e delle sue frequenti visite al commissariato di pubblica sicurezza.
Federico Conti, o meglio, il suo cadavere, giaceva sulla poltrona dello studio, la testa trapassata dal proiettile esploso dalla pistola situata ai suoi piedi. La mano sinistra appoggiata sul petto, mentre la destra ciondolava inerte al di fuori del bracciolo della poltrona. Le ventole di raffreddamento del computer acceso producevano un rumore intermittente che rendeva surreale il quadro d’insieme. A dare l’allarme era stato il portiere, salito a vedere dopo aver telefonato come tutte le mattine alle otto per svegliarlo, senza ottenere risposta.
L’ispettore restò sul luogo del delitto per più di un’ora, durante la quale non parlò con nessuno, ma osservò tutto in maniera attenta, anche le cose che potevano sembrare insignificanti. I suoi uomini, che ben conoscevano la persona, erano stati altrettanto attenti a non modificare la scena. Uno di questi lo seguiva imbracciando una piccola telecamera, riprendendo tutto quanto aveva suscitato l’attenzione dell’ispettore. Sembrava la scena di un suicidio, ma la presenza di Silvestri, che non si era limitata a un semplice sopralluogo, diceva altrimenti. Decise di uscire.
Seduto a un tavolo del Caffè Centrale intento in apparenza a leggere un giornale, l’ispettore Silvestri in realtà osservava il comportamento del personale e degli avventori, annotando le presenze e soprattutto, le assenze. Alla fine il direttore di sala gli si mise a sedere a fianco; pur con tutto il suo mestiere, non riusciva a nascondere una certa dose di nervosismo.
- Buongiorno, ispettore.
- Salve.
- Allora è vero. Al buon Federico hanno fatto la festa!
- Dice? L’ha organizzata lei?
- Lei ha voglia di scherzare!
- Io? Io non scherzo mai.
- Mi scusi. Dicevo per dire. La lascio al suo lavoro.
- Le sembra che stia lavorando?
- No… volevo dire… Scusi, ispettore, ma con lei non si sa mai come…
- Io ero già qui. È lei che si è seduto al mio tavolo.
- Giusto. Mi scuso per l’invadenza. Arrivederci.
- Aspetti. Per essere uno che non ha niente da dire si è già scusato troppe volte.
Il volto dell’uomo, già imperlato da gocce di sudore, si tramutò in una maschera stralunata.
- Mi sc…, cioè perdono… insomma, volevo dire, la mia naturale cortesia mi impone un certo riguardo… che lei scambia per impaccio.
- Quando l’ha visto per l’ultima volta?
Le gocce di sudore divennero scie.
- Ma, io, non saprei… dovrei sentire i ragazzi.
- Li chiami.
- Ci sono anche quelli di turno, che adesso sono fuori servizio.
Lo sguardo dell’ispettore fu talmente eloquente che in breve quattro persone tra baristi e camerieri raggiunsero il suo tavolo. Nessuno di loro, però, ricordava di aver visto Federico Conti negli ultimi giorni. L’ispettore Silvestri si alzò per andarsene, dopo aver ottenuto dal direttore il nome dei due camerieri mancanti, con l’indirizzo e il telefono. Rientrò al commissariato alle due del pomeriggio. Nel suo computer era stato già caricato il video girato a casa Conti. Ordinò a un agente di rintracciare i due camerieri del Caffè Centrale e poi si mise alla visione attenta del filmato. Trascorse così buona parte del pomeriggio. Alle cinque arrivò uno dei due camerieri, che disse anche lui di non aver visto Conti al Caffè da parecchio tempo. Prima di salutare l’ispettore, però, aggiunse:
- Io sono addetto al bancone, e quando il bar è affollato non ho tempo di vedere chi entra in sala. Il collega, invece, Maurizio, sì l’altro che non è di servizio, insomma, quello che so è che quando il signor Conti viene, scusi… veniva al Caffè, voleva essere servito solo da lui. Certe mance, gli dava!
Silvestri, perdendo la sua compostezza, chiamò a gran voce l’agente di servizio, al quale ordinò di verbalizzare le dichiarazioni del barista, di far ricercare con estrema urgenza l’altro cameriere e di convocare con altrettanta urgenza il direttore di sala del Caffè Centrale. Poi si recò nell’ufficio del commissario, che l’aveva chiamato da più di un’ora.
- Alla buon’ora. Vieni, vieni Silvestri.
L’ispettore entrò nell’ufficio senza riuscire a trattenere la smorfia di disgusto che era solito manifestare ogni volta che era costretto a farlo. In fondo alla stanza, una nuvola di fumo lasciava intuire le forme di una scrivania e di un uomo seduto dietro. Quell’uomo era il commissario Accadi.
- Si metta a sedere, Silvestri, prego. Non fuma, vero?
- No, commissario.
- Eh, mi dispiace. Volevo offrirle uno di questi sigari. Eccezionali, veramente.
- Non ho difficoltà a crederlo. Mi ha fatto chiamare, commissario?
- Sì. In effetti le volevo parlare di quel… come si chiamava… ah, sì, Conti. Questo è il rapporto della scientifica. Come può vedere…
- Il rapporto della scientifica? Mai visto un rapporto prima di una settimana.
- …non ci resta che allinearci alle loro conclusioni. Si tratta di suicidio.
Silvestri sembrava pietrificato nella sua solita espressione di puro scetticismo.
- Mi sembra di capire che tale rapporto non la soddisfa, ispettore. La prego, mi metta a parte delle sue indagini.
- Indagini! Avranno rimosso il corpo due ore fa, e lei mi parla d’indagini. Perché tutta questa fretta, commissario?
Accadi si alzò dalla sua poltrona per aprire la finestra. Il fumo iniziò a diradarsi.
- Lei conosce Pirandello? Certo che sì, chi non l’ha letto? A proposito di una sua celebre commedia, una delle mie preferite, Pirandello diceva “Chi ha capito il gioco non riesce più a ingannarsi, non può più prendere né gusto né piacere alla vita”. Così, davanti a noi, su quel grande palcoscenico che è la vita, si dispiega il gioco delle parti, pertanto chi è non è chi dovrebbe essere, e viceversa.
- Chi c’è in mezzo a questa storia, commissario. Mi ripeto, perché questa fretta?
- Senta, Silvestri, io le posso dare al massimo altri due giorni. Questo è quanto.
L’Ispettore si alzò in piedi dirigendosi immediatamente verso la porta, ma prima di uscire sentì il commissario chiamarlo.
- A proposito di Pirandello, è davvero un peccato che lei non fumi. Se dovesse ripensarci, faccia un salto nella tabaccheria di Via dei Lombardi, dica che la mando io.
Nel chiudere la porta Silvestri fece in tempo a intravedere Accadi intento ad accendersi un altro dei suoi sigari.
- Spiegami che cosa significa non si trovano, con il direttore ci ho parlato appena qualche ora fa.
L’agente cercava di spiegare all’ispettore le sue ragioni, senza successo.
- Né il direttore di sala Mario Ottoni né il cameriere Maurizio Cardillo sono rintracciabili sul lavoro, a casa e nei posti che solitamente frequentano. Li stiamo cercando.
- Va bene, va bene. Mi raccomando.
Silvestri guardò l’orologio. Erano le sette e mezzo. I tabaccai chiudevano alle otto. Prese la cartella con il rapporto della scientifica e uscì dal commissariato per raggiungere via dei Lombardi. Accadi era solito comportarsi così, con i suoi investigatori, come un cacciatore con i cani. Faceva fiutare loro una traccia per metterli sulla buona strada, se non poteva dire di più. Silvestri aveva un olfatto finissimo, e aveva capito che in quella storia qualcosa non quadrava fin dall’inizio quando aveva visto il cadavere di Conti e la pistola a terra. Già, la pistola. Un piccolo particolare aveva attirato la sua attenzione, e di colpo aveva cambiato lo scenario che si mostrava ai suoi occhi. Un particolare di cui non si era accorto nessuno, almeno in apparenza, e che sul rapporto della scientifica non era menzionato.
Arrivò davanti al negozio di articoli per fumatori in meno di quindici minuti. Il cancelletto esterno tirato a chiudere metà vetrina l’infastidì, sembrava quasi un avvertimento. Entrò con sollecitudine.
- Una scatola di sigari.
- Ce ne saranno un centinaio. Magari se si degna di farmi sapere quale marca desidera…
Il tabaccaio aveva dello spirito. Silvestri no. Mostrò il distintivo e chiese al tipo spiritoso di appoggiare sul bancone una scatola per ogni tipo di sigari di cui disponeva in negozio. In breve sul ripiano si poterono contare una trentina di diverse tipologie di sigari. L’ispettore aveva attentamente osservato il tabaccaio mentre spostava i sigari dallo scaffale al banco, notando un rigonfiamento sul petto, sotto l’ascella sinistra.
- Mah, penso che prenderò gli stessi del commissario Accadi.
L’altro sembrava seduto su una pianta spinosa.
- Poteva anche dirlo subito.
- Mi dispiace tanto, veramente. Vediamo il ferro.
Il tabaccaio con riluttanza accennò a infilare la mano destra sotto la giacca.
- Ehi, Ehi, alza le mani. Faccio io.
Con la pistola comparsa all’improvviso nella sua mano sinistra, Silvestri teneva sotto tiro il negoziante mentre girava intorno al banco. Prese l’arma del tizio dalla fondina ascellare e gli diede una rapida occhiata. La matricola era abrasa.
- Quante ne trovo come questa se chiamo una squadra e ti faccio rivoltare il negozio come un guanto, eh?
- Piano, piano. Stiamo dalla stessa parte.
- Dammi i sigari.
Il tabaccaio prese da un cassetto una busta gialla di medio formato. Sul davanti c’era scritto J.F., K.. Silvestri l’aprì. Era vuota.
- Tu non sarai mai dalla mia parte, e tanto meno io dalla tua. Penso che la parte del guanto ti dovrebbe star bene. Sì, penso proprio.
Una fotografia si affiancò alla busta gialla. La fotografia di Conti, di almeno un paio di anni più giovane. Silvestri infilò la prima nella seconda, e con rapidità si allontanò dal negozio, dopo aver appoggiato la pistola del tabaccaio sul bancone. Questi la prese in mano per riposizionarla nella sua fondina, senza controllare il caricatore. Se l’avesse fatto, si sarebbe accorto che mancava un proiettile. L’ispettore se la rideva mentre guidava per raggiungere casa. Tutta la pantomima che aveva messo in scena era servita per raggiungere quello scopo. Mentre apriva la porta di casa pensava che il personale dei servizi non era più quello di una volta. Lui li conosceva bene. Ne era uscito dieci anni prima.
L’ispettore Silvestri entrò in commissariato con un volto più scuro del solito, in parte per via della barba non rasata e per il resto per colpa di un incubo che l’aveva risvegliato a metà della notte senza consentirgli di riprendere più il sonno. Si chiuse dentro il suo ufficio dal quale uscì solo dopo un paio d’ore, il volto liscio come quello d’un bambino e un sorriso che in pochi potevano ricordare di avergli mai visto in faccia. Entrò nell’ufficio del commissario Accadi dove il fumo aveva raggiunto una concentrazione di livello inusitato. Dall’altra parte della cortina la sagoma del commissario era rimasta immobile. Dopo cinque minuti trascorsi in silenzio, la sagoma parlò.
- Il proiettile.
Un proiettile calibro 9 mm parabellum si materializzò sul bordo della scrivania.
- Ieri sera ha fatto un po’ di teatro.
- Avevo ancora in testa Pirandello.
- Già il gioco delle parti. Mi deve dire qualcosa?
- Sì.
- E sia.
- Il proiettile è dello stesso calibro del bossolo trovato a palazzo Conti.
- È un calibro abbastanza diffuso, mi sembra.
- Sì, ma in Italia può essere usato solo dalle forze dell’ordine e dall’esercito. Comunque sia il bossolo che il proiettile del nostro amico tabaccaio sono stati fabbricati in Italia.
- Allora? Andiamo Silvestri, ci sta girando intorno…
- Il caricatore della pistola di Conti conteneva altri nove colpi. Tutti made in U.S.A.
- La sto ascoltando.
- La pistola di Conti è una Beretta M9. Quando l’ho vista io aveva il cane abbassato. Strano, no?
- Dice?
- Dico. Dunque, la scena del crimine ci svela che Conti aveva nel caricatore, prima di spararsi, dieci colpi, di cui nove fabbricati in America e uno in Italia. Quest’ultimo è quello che lo ha ucciso. Dopo essersi sparato, la pistola di Conti, con altri nove colpi nel caricatore, cade in terra con il cane abbassato. Ma una semiautomatica dopo aver sparato incamera subito il proiettile successivo. Armando il cane.
- Magari si è abbassato a causa dell’urto con il pavimento.
- La M9? Non ci crederei neppure a vederlo. E in ogni caso sarebbe dovuto partire un altro colpo, ma noi sappiamo che questo non è avvenuto.
- Quindi?
- Quindi qualcuno ha avuto premura di sostituire il bossolo del vero proiettile che ha ucciso Conti e già che c’era ha anche cambiato la pistola. Perché la palla che ha trapassato il cranio di Conti, lo dice la perizia balistica, è in calibro 9x21 mm. E non 9 parabellum.
- Vada avanti.
- A parte la stranezza di un’arma classificata da guerra in dotazione alle forze armate statunitensi in mano a un nobile italiano di mezza età che vive dei suoi poderi, a parte l’evidente depistaggio in cui hanno cercato di coinvolgermi consegnandomi quella busta contenente la fotografia di Conti…
- Depistaggio, dice?
- Sì. Quella busta, con quelle iniziali scritte sopra e la fotografia dentro è la tipica documentazione che viene fornita al killer quando si stipula un contratto. Chi ha avuto premura di farmela avere sapeva che io non potevo non riconoscerla.
- Con quale scopo, scusi?
- Lasciare che io mi impaludassi in una indagine che non avrebbe portato da nessuna parte.
- Perché?
- Questo me lo deve dire lei. Il gioco delle parti, no?
- Attenzione. Sta imboccando una via pericolosa.
- Ma io non sto dicendo che la busta è opera sua. Penso invece che voleva che riuscissi a trovare quel proiettile.
- Mmmhh…
- Allora parlo io, commissario. Conti lavorava per i servizi americani. E così giustifichiamo l’arma. Ma la paga forse non era di suo gradimento, e la rendita di cui disponeva era davvero misera. Quindi si mette a vendere qualche notizia di cui è a parte a qualche organizzazione straniera. I suoi colleghi scoprono il businnes e Conti deve essere eliminato. Conti però sa fare bene il suo lavoro, e nel caso di una sua morte, diciamo così, violenta, si è premunito lasciando una corposa documentazione compresi nomi… imbarazzanti presso lo studio di un notaio… diciamo pure un paio. Studiano pertanto un piano alternativo per indurlo al suicidio. Conti era una persona ipocondriaca, attento in modo maniacale alla sua salute. Faceva le analisi del sangue ogni mese, e altre indagini più impegnative al massimo ogni tre. È stato facile falsificare analisi e referti lasciandogli credere che gli erano rimasti pochi mesi di vita. Il suo computer era pieno di file riguardanti analisi cliniche e referti medici , di corrispondenza con i più qualificati chirurghi italiani che, naturalmente, vedendo simile documentazione, non potevano che avvalorare una diagnosi infausta. Il gioco sembrava fatto, il terreno per condurlo al suicidio era stato ben concimato. Ma non si era pensato a tutto. La stessa busta che è stata preparata per farmi girare a vuoto ne è testimone. La sigla J.F., che avrebbe dovuto indicare le iniziali del fantomatico killer, non ci interessa, ma la lettera successiva, La K. che stava a indicare Konti, il soprannome con cui era conosciuto da tutti all’interno della sua organizzazione, invece ci dice molte cose. Per esempio ci dice che Conti, o Konti, stava cominciando a sospettare che quei referti potessero essere stati falsificati, ed era riuscito a farne altri senza che nessuno se ne accorgesse. Non mi chieda come ha fatto perché non lo so.
- Tutto interessante, ma con le congetture…
- Congetture, dice? No, fatti. Io ho nel mio computer, a casa, la mail di una clinica romana con allegati tutti i nuovi referti dai quali risulta, in modo inequivocabile, che Conti era sano. Come un pesce, se vogliamo banalizzare.
Per la prima volta dall’inizio del suo racconto Silvestri vide un’ombra sello sguardo di Accadi, operazione facilitata dall’assottigliarsi della cortina fumogena non più alimentata dal sigaro, schiacciato nel portacenere.
- Come ha avuto la mail?
- Ho avuto fortuna. Conti non era molto bravo con il computer, non aveva nemmeno configurato un account per la posta elettronica. In pratica doveva accedere a ogni sito presso il quale aveva un indirizzo mail, ognuno con una diversa password. E d’indirizzi mail ne aveva parecchi. Una ventina circa. Per lui controllare la posta significava perdere ogni volta delle ore.
- Diceva della sua fortuna.
- Sì. Ieri mattina mi è capitata tra le mani una lista degli indirizzi mail di Conti, con relative password. Era scritta a mano, e ho pensato che magari era l’unica versione esistente. Tutti indirizzi anonimi, aperti sicuramente fornendo false generalità. Questa mattina nel mio ufficio, prima di venire da lei, mi sono collegato con ogni sito, controllando ogni singolo messaggio. Ho fatto tombola. Dopo quattro o cinque tentativi sono entrato nella casella di posta elettronica che Conti aveva aperto in Argentina e che aveva chiamato facciamoiconti@conti.ar e ho trovato tre email della clinica romana di cui le dicevo con allegati analisi e referti.
- Si rende conto che ha alterato la scena del delitto e si è impossessato di reperti di valore giudiziario?
- Certo che mi rendo conto. Ma è lei che mi ha assegnato il caso. Oppure vuole dire che ho capito male e voleva che indagassi così, tanto per fare. Rimangono da interrogare un paio di persone del Caffè Centrale, che abbiamo rintracciato questa mattina. Non sanno niente d’importante comunque. Il caso è chiuso. Conti è stato suicidato.
- Ha già steso il rapporto?
- No. Fra un’ora la pratica sarà sulla sua scrivania. Il caso è sempre stato suo.
- Non le interessa sputtanare i servizi?
- Oh, quelli si sputtanano da soli. Mi basta fargli sapere che ci sono ancora.
- Bene Silvestri, è tutto, mi sembra.
- Sì. Domani prendo un giorno di permesso. Devo andare a visitare palazzo Conti. L’ultima volta che ci sono stato purtroppo non ho avuto tempo per l’arte. La saluto, commissario. Ah, dimenticavo. Ho riletto la commedia, il gioco delle parti. Bella ma devo in parte smentire Pirandello: anche chi ha capito il gioco prende gusto e piacere alla vita. Glielo assicuro.
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La scrittura è comunque fluida ed abbastanza coinvolgente e il risultato finale buono.
I miei complimenti.
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Per la prima volta dall’inizio del suo racconto Silvestri vide un’ombra sello sguardo di Accadi, operazione facilitata dall’assottigliarsi della cortina fumogena non più alimentata dal sigaro, schiacciato nel portacenere.
Sello anziché nello
“É stato suicidato” mi ha fatto morire, per restare in tema (nel senso che mi è piaciuto, mi ha divertito.
Scritto molto bene, voto 5.
- Alberto Marcolli
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commento Il gioco delle parti
Non sono molto capace di “gustare” i racconti gialli, in fin dei conti leggo solo Maigret. Ho trovato la storia, a una prima e sola lettura, abbastanza complicata, ma d'altronde è quasi impossibile in così poche cartelle.
Mi limiterò a dire la mia sulla scrittura. Buona direi
Voto 4
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personalmente credo che questo giallo ti sia riuscito benissimo (max. voto)!
È una tipologia di racconto che non mi attrae particolarmente scrivere perché per me il giallo è un gioco tra scrittore e lettore: il lettore gioca a scoprire "l'imbroglio" ordito dallo scrittore, e lo scrittore deve essere abbastanza corretto da mettere il lettore nelle condizioni di scoprire "l'imbroglio" prima della propria spiegazione.
In 25'000 caratteri non lo vedo fattibile, quindi non pretendo che nessuno lo tenti nemmeno.
Il tuo racconto devo perciò valutarlo altrimenti, e qui mi sono goduto la penna, le descrizioni, la caratterizzazione dei personaggi, delle loro personalità. Tutta roba molto molto buona!
L'unico paragrafo che mi ha sinceramente lasciato un po' perplesso è stato proprio il primo, quando usi:
"senza riuscire a distaccare lo sguardo dallo splendore architettonico di cui erano circondati"
capisco ora che parli dei tanti che hanno preceduto l'ispettore nei secoli lungo quelle rampe e stai facendo un contraltare al comportamento dell'ispettore, la cui attenzione non è distratta dalle rigogliose essenze del giardino all'italiana, evidentemente perché già concentrato sul caso. A una prima, frettolosa lettura, sarà la costruzione del paragrafo, avevo ricevuto due messaggi dissonanti: l'ispettore se ne frega del giardino e poi apprezza l'architettura.
Lo so, lo so: "di cui erANO circondatI", ma c'è un'ispettore, ci saranno poliziotti. Il senso l'ha dato infine "la rampa di scale che ogni sera doveva superare per entrare nel suo piccolo appartamento di periferia."
Insomma, personalmente, il periodo mi ha un po' disorientato. Ma, ripeto, è davvero l'unico momento di esitazione in un racconto altrimenti davvero ben scritto.
A presto!
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l'unico appunto che posso fare è nella stesura della prima parte. a mio parere dovresti andare a capo più spesso, facilitando il lettore.
per il resto è scritto molto bene e contiene ottime descrizioni.
anche la storia in sé è molto gradevole.
complimenti
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