La caverna
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La caverna
Mia madre è disperata. Mio padre invece è uno stronzo. Anzi quello stronzo non è mio padre, è solo uno stronzo. Spero che rimarrà confinato nell’appartamento della puttana con cui vive. Non potrà rincasare, litigare con mamma, bestemmiare, picchiarla e poi ricominciare da capo.
Mamma mi fa pena. Si chiama Dolores. È tutta presa dalle apparenze, dalle formalità, dall’ordine maniacale delle cose insignificanti, come la disposizione precisa dei ninnoli sul comò, oppure delle ciabatte ai piedi del letto. Alle amiche dice sempre questa frase esatta: “non faccio per vantarmi, ma mio figlio ha una sensibilità non comune e una proprietà di linguaggio impressionante, per la sua età”. A me invece dice che ho una luce speciale dentro, che aspetta soltanto di brillare. Non ho mai ben capito cosa intenda.
Bussa di continuo alla porta.
«Tesoro, quando mi farai entrare? Lo sai, vorrei solo che parlassimo un po’...»
«Lo so, mamma.»
«Quando possiamo parlare?»
Non le rispondo.
«D’accordo David, proverò a bussare più tardi, magari mi farai entrare.»
Se non altro è gentile. Ci sono state volte in cui ha cercato di forzare la porta, minacciando di chiamare mio padre, il fabbro, i pompieri, la polizia, l’esercito, un plotone di marines. Adesso è in modalità genitore comprensivo. Credo che parli di me con qualche psichiatra, perché ogni tanto cambia atteggiamento, come se le suggerissero nuove strategie. Non accetta questo fallimento. Continua a cucinare per me, lo ha sempre fatto. Lascia la cena sul lavello della cucina, sapendo che ogni notte il suo cucciolo sgattaiolerà fuori dalla tana per nutrirsi.
*****
Son passati poco più di dieci minuti dall’inizio dell’anamnesi, quando l’esile mano di Dolores comincia a tremare. Dalla fronte inizia a sgorgare ansia, sotto forma di sudore.
«Io non so più cosa fare, dottoressa! Mi hanno detto che lei potrebbe aiutarmi.»
«Si calmi, signora. Comprendo quello che sta passando.»
La dottoressa Nadia Invano – così recita il cartellino appeso al camice – è una neuropsichiatra infantile. Ha un timido strabismo di venere e un viso paffuto, tutto l’opposto della sua interlocutrice. Chissà quante madri come Dolores ha conosciuto, coi loro figli unici, adolescenti, sicuramente timidi, magari con un basso livello di autostima, un forte stress emotivo e sociale, una madre pretenziosa e un padre assente.
«Ha detto che è stato il dottor Fresa a indirizzarla da me?»
Dolores fa cenno di sì.
«Qui siamo specializzati nella sindrome di hikikomori, sa cos’è?»
Paolo Fresa, lo psicologo, era convinto che quella potesse essere la malattia di David, perciò gliene aveva parlato. Lei però non aveva ben compreso il significato di quella strana parola, così preferisce non azzardare risposte. Piuttosto arriccia le labbra e lascia che sia la dottoressa a parlare.
«Si tratta di un disturbo di natura psichiatrica che colpisce i ragazzi adolescenti. Una specie di isolamento sociale, un rifiuto dei rapporti interpersonali, anche nel nucleo familiare.»
«Infatti, come le dicevo, sono quasi due mesi che David non esce dalla sua cameretta. Non capisco perché.»
«Uscirà quando verranno meno le ragioni dell’isolamento.»
«Ma quali sarebbero?»
«Possono essere molteplici. Il ragazzo potrebbe isolarsi se percepisce delle pressioni psicologiche, forse delle eccessive aspettative su di lui, da parte...»
«Non lo abbiamo mai pressato. Cioè io... per il suo bene...»
«Oppure potrebbe provare un forte disagio all’interno del contesto sociale o familiare quotidiano.»
La donna estrae un fazzoletto dalla borsa e deterge il sudore attorno agli occhi. «Non sarà invece una dipendenza da internet e da quei videogiochi? Passa ore a...»
«È improbabile, signora. Credo piuttosto che internet, le chat, i social network e i videogame siano gli unici strumenti che suo figlio ha per interagire con l’esterno.»
«Forse qualche atto di bullismo a scuola, allora?»
«È possibile. Cosa glielo fa pensare?»
La donna abbassa lo sguardo, come se la discussione la ferisse.
«Quando è morto mio padre, cioè suo nonno, alcuni ragazzi lo hanno preso in giro. Lui ne ha sofferto molto. L’ho scoperto leggendo un suo diario.»
«Va bene. Andiamo per gradi. Per il momento vorrei escludere che possa trattarsi di disturbi d’ansia o dell’umore, come la depressione, o di natura psicotica come la schizofrenia. Ne discuterò col dottor Fresa. Nel frattempo sarebbe utile se lei compilasse alcuni questionari. Che ne dice?»
Dolores annuisce.
*****
Lunedì finirà il lockdown. È durato sessantanove giorni. Sembrano tutti impazienti, come cagnolini nel momento in cui realizzano che il padrone sta per portarli al parco. Un tizio alla TV sta dicendo che “adesso abbiamo consapevolezza della fragilità dell’uomo e della società in cui viviamo”. Nessuno invece dice che il mare sta tornando al suo colore naturale, che gli animali e la vegetazione stanno riconquistando il loro habitat.
Ricomincerà tutto da capo.
La scuola. Mio padre.
Il virus umano sta vincendo contro l’altro virus. È sabato, sono le tre di notte, quindi è già domenica. È quasi la fine. Una vocina nella testa continua a parlarmi: ora o mai più, mi dice. Ora o mai più. Poggio l’orecchio sulla porta e riesco a sentire mamma che russa. Esco, ma stavolta non vado in bagno né in cucina. Non ho fame, non ho sete, non devo fare pipì. Mi fermo davanti l’uscio di casa. Per la prima volta, dopo tanti mesi, sento il desiderio di uscire. Non solo dalla mia cameretta e neanche dall’appartamento. No, stavolta voglio andare in strada. Ora o mai più. Uscire e restare fuori fino all’alba, è l’ultima occasione. Ora o mai più.
Esco.
Sono immerso nella città. Nell’ultima notte di quarantena è una creatura docile, stupefacente. Posso abbracciarla, entrare in simbiosi con lei, come non m’era mai capitato, come non mi capiterà più. Non è semplice descrivere come mi sento. Mi torna in mente un cortometraggio sull’attentato dell’undici settembre. So spiegarlo soltanto così. In quel filmato c’è una fioriera sul davanzale di una finestra. Le piante sono avvizzite, perché le torri gemelle gli fanno ombra. Quando quei giganti crollano, allora i fiori vengono inondati di sole e di luce. Finalmente sbocciano. Ecco, io mi sento così, come quei fiori. D’un tratto intuisco il significato delle parole di mamma, sulla luce che mi brilla dentro.
Però tra poco finirà tutto, risolleveranno le torri, faranno di nuovo ombra, i fiori appassiranno. Tornerò per sempre nel mio cielo bianco.
Scriverò un biglietto a mamma, per la prossima volta che verrà a bussare: “La luce che ho dentro stanotte ha brillato, ma adesso si è rinchiusa dentro una caverna. Perdonami se non uscirà mai più”.
*****
«I nonni?» domanda il parroco.
Dolores non risponde.
«E suo marito? Il padre del ragazzo?»
La donna scuote il capo, nascosta dietro la mascherina chirurgica e gli occhiali da sole, avvolta dentro quel foulard nero con cui David, da piccolino, amava farsi solleticare i piedini. Rideva tanto, allora.
«Mi dispiace...» sussurra il prete, interrompendosi a causa di un groppo alla gola. Sembra che fatichi a deglutire. Trasferisce negli occhi l’espressione più compassionevole di cui è capace, e prosegue.
«Mi dispiace per la tragedia che sta passando, anche perché dobbiamo svolgere queste esequie in forma privata, per via della pandemia ma anche perché... insomma lei capisce che la Chiesa...»
Con un gesto della mano Dolores interrompe l’imbarazzo del sacerdote, che ingoia una sorsata d’aria, si morde un labbro, e cambia discorso. Per modo di dire.
«Le confesso che sono in imbarazzo. Ho pregato il Signore affinché mi illuminasse sulle giuste parole da pronunciare, ma non ci sono riuscito. Conoscevo David, ho il cuore angosciato. Lei si aspetta da me delle parole di conforto, di speranza, una spiegazione. Invece sono impotente, sono smarrito quanto lei.»
Dolores dentro di sé disapprova. “Non quanto me”, vorrebbe dire. Ma non fiata.
«Al dolore del distacco si aggiunge il peso di un grave peccato, al quale non posso... non riesco a trovare giustificazione. La tentazione del darsi la morte origina dal male. San Pietro ci aveva edotto...»
Un luccicone precipita lungo la guancia della donna.
«Per favore, padre, lo benedica e basta.»
Don Errico rimane un instante interdetto, con la mascella appesa. Infine acconsente.
«Certo. Certo.»
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ciò nonostante non mi ha preso.
non sono riuscito a entrare in empatia con la storia, sebbene tratti di un argomento molto grave e poco conosciuto.
non ti saprei dire cosa manca, probabilmente è solo una mia impressione.
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Ben fatto! Merita.
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Sono anche su Inchiostrodiverso!
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Illustrazioni: @novelle.vesperiane
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