Il professore
Il professore
Il vecchio tavolo stava accostato alla parete, tre sedie di paglia intorno. Una scala nell’angolo portava al piano di sopra, quello della camera da letto; riscaldata dal tiepido intonaco che copriva la canna del camino. Il tepore durava finchè il fuoco non si spegneva di notte, e allora si stava caldi solo avvolti stretti nella vecchia trapunta.
Dall’unica finestra entrava la luce del giorno, ora quasi al tramonto. Il rosso della sera si mescolava al rosso della fiamma e nel silenzio della stanza si provava una sensazione di pace.
A lato della finestra, fra questa e l’angolo del muro, stava una libreria di castagno, scura, con i ripiani incurvati sotto il peso di libri accatastati in tutte le posizioni, qualcuno spinto a forza fra uno e l’altro.
Un uomo alto, non vecchio, sedeva comodo in una poltrona accostata al camino con i piedi scalzi sullo scalino rialzato. Leggeva.
Un po’ più in là, arrotolato e con la schiena appoggiata allo stesso scalino stava un cane da caccia, bruno, muso sopra le zampe, occhi chiusi e russava lievemente accordandosi al rumore del legno che bruciava.
L’uomo chiuse con uno scatto il libro. Il cane aprì subito gli occhi, subito allerta. Spingendosi sui braccioli, intorpidito dalla posizione seduta, l’uomo si mise in piedi, infilandosi le ciabatte.
Il cane fu subito in piedi anche lui, scrollandosi vigorosamente, tanto che il pelo fulvo fluttuava attorno al suo corpo dandogli una forma indefinita.
“Altair, non è il caso che ti alzi. Vado solo nella legnaia a prendere un altro po’ di legna, stai tranquillo”
Inutile: già gli annusava le gambe per poi dirigersi verso la porta.
A metà settembre l’aria lassù, a oltre mille metri, era piuttosto fresca; anzi, fredda, sul far della sera.
Verso nord c’era una muraglia altissima, prossima ai tremila metri: una lunga cresta orizzontale che chiudeva la valle. Brillavano ancora i ghiacciai illuminati dai raggi obliqui del sole al tramonto. La luce si rifrangeva sui seracchi e molte tonalità dello spettro luminoso lampeggiavano e coloravano quei pendii che erano in realtà di un biancore abbagliante.
La casa, quattro sassi e un tetto di pietra, era situata, assieme a una decina di altre simili, su un cucuzzolo al centro della valle; sopraelevato di parecchio rispetto al fondovalle. La stradina asfaltata ma piena di buche che da giù saliva fino al borgo era ripidissima e non sempre praticabile d’inverno.
Vivevano lassù non più di venti persone, la maggior parte giovani, alcuni sposati.
“Fresco eh, professore? Un po’ di legna per stanotte?”
“Salve Carlo. Come va? Sì, la cassetta è quasi vuota e preferisco uscire adesso, fin che c’è luce”.
Erano d’accordo gli abitanti di quella piccola frazione: tutti facevano legna nei boschi, poi la accumulavano in un’unica legnaia e se ne servivano ogni volta che ne avevano bisogno.
“Aspetta prof, ti do una mano”.
“Grazie, molto gentile, Carlo”.
Si avviarono su per la scala esterna di legno dal mancorrente traballante, grigia per gli anni e ancor di più per la pioggia e la neve.
“Ecco, mettiamola lì, nella cesta”
Carlo si premurò di sistemare la legna con ordine. Poi si alzò per uscire,
“Carlo, è quasi ora di cena. Siedi un momento. Ci vuole un aperitivo, che dici?” nel mentre apriva una credenza ordinata, dove stavano impilati dei piatti, delle pentole, qualche bicchiere capovolto e alcune bottiglie di cui una trasparente, di grappa fatta in qualche fienile.
“Ti ringrazio, prof, ma non è il caso”, ma già scostava una sedia dal tavolo e si sedeva con piacere.
“Figurati, Carlo. E Sara, come sta?”
“Bene, grazie. Il raffreddore le è passato e posso infine sentirla parlare con la sua voce squillante mentre mi rimprovera perché lascio tutto in disordine. Ancora poche settimane e nasce il secondo!”
Si guardava intorno, nel frattempo:
“Vedo che non smetti mai di leggere, eh prof?” mentre sfogliava il libro rimasto sulla poltrona.
Lo chiamavano tutti prof o professore, dopo che, tre anno addietro, era arrivato nel borgo con una montagna di libri.
“Che mestiere fai?” fu una delle prime domande che gli fecero.
“Ormai sono in pensione, dall’anno scorso. Ho insegnato filosofia. In un certo senso mi sento come se non avessi mai smesso.
Dicono che Socrate, mentre gli preparavano il veleno per ucciderlo in carcere, stava imparando una nuova melodia al flauto. Gli amici che lo circondavano gli chiesero (con pessimo gusto, secondo me) perché mai si sforzasse di imparare un nuovo brano, dal momento che…Lui rispose: ‘E’ vero, sto per morire, ma morirò conoscendo una musica che non conoscevo prima’. Capito, Carlo? Bada che ti racconto questo aneddoto non certo per paragonarmi a Socrate, sia chiaro. Ma anch’io sento quasi un bisogno fisico di leggere, non posso farne a meno.”.
Il professore, abbiamo detto, era arrivato lassù tre anni prima. Durante una gita in montagna era capitato in quello sperduto borgo.
La giornata era meravigliosa, tutti i colori della tarda primavera cospiravano a far sembrare quelle quattro case come fossero magiche, un’emanazione del bosco. Anche il cielo, senza una nuvola, contribuiva con un azzurro intenso a marcare il confine fra la roccia e l’aria. E il silenzio! Questa pace interrotta solo dal fruscio delle foglie morte e di quelle nuove sui giganteschi castani…
Si era innamorato del posto e della gente, dopo essere tornato e tornato più volte.
Aveva comprato quella casetta dove ora viveva e ci si era trasferito nonostante le difficoltà logistiche per scendere ogni giorno a fondovalle, a scuola.
Era solo; dunque non doveva convincere nessuno.
Ma, contrariamente a quel che si pensa, non si era stabilito in quel posto remoto per amore della solitudine, per sfuggire alla vita frenetica, per la pace interiore.
Se questo fosse stato il suo scopo non avrebbe resistito più di qualche settimana.
La mancanza apparente di ‘vita’ l’avrebbe oppresso inesorabilmente.
No, era venuto quassù perché si era reso conto, dopo una vita frenetica ma priva di contatti umani, che qui poteva finalmente trovare un universo di sensazioni e di amicizie.
Qui poteva conoscere tutti, ed erano tantissimi a paragone con le moltitudine amorfe che corrono ogni ora del giorno nelle città. Qui poteva sperare esistesse ancora la ‘persona’. E qui era venuto, una scommessa con se stesso.
Ricordava alle volte la vita nel condominio dove abitava. Lasciando perdere le baruffe e gli odii alle riunioni dei condomini, si era reso conto, con sgomento, di non sapere quasi i loro nomi. Quando li incontrava per la scala o in ascensore, a malapena riceveva un ‘…giorno’; e poi via, ognuno per conto suo.
In dieci anni non era riuscito a farsi invitare, non dico per una cena, ma quantomeno per un caffè; anche al bar. Neppure se era lui a invitare (‘mi spiace, oggi proprio non posso; un’altra volta, d’accordo?’).
Mentre sorseggiavano in silenzio il loro martini, Altair aveva appoggiato il muso sulla coscia di Carlo
“Certo che il tuo cane è un tesoro, professore. E’ buono come il pane, ha degli occhi così neri, profondi…”
“E’ vero, è buono. Lo sai che Altair è una stella?”
Carlo era ingegnere edile, un giovane di quarant’anni, sempre in movimento fra i cantieri del fondovalle e la sua meravigliosa casa. Era nato proprio lì, in quella frazione. Durante gli anni al poli aveva conosciuto Sara. Si erano sposati ed erano venuti quassù. Mai avrebbero lasciato quello che per loro era un paradiso. Ora aspettavano un secondo figlio, ancora poche settimane di attesa.
“Sì, prof, lo so. Nella costellazione dell’aquila, bellissima. Come sai ho un piccolo telescopio a casa, ma mi capita di guardare il cielo più spesso a occhio nudo. Mi pare di percepire meglio la sua immensità. Cosa vuol dire Altair?”
“Vuol dire ‘l’aquila volante’, dal nome arabo che risale al medioevo.
L’hai chiamato ‘il tuo cane’, parlando di Altair. So bene che, se vogliamo intenderci e uscire da gineprai inestricabili, bisogna che usiamo i possessivi: mio, tuo, loro, eccetera. Ma, forse, non è del tutto corretto, se ci pensi. E qui entra, spero di non essere pedante, il professore di filosofia. Cosa vuol dire ‘mio’? Sarei disposto, a mente fredda, a dare la mia vita per lui? Per quanto gli voglia bene, sono quasi certo che no, non lo farei. E lui? Ci scommetto tutto quello che vuoi: morirebbe per me. Allora…chi è di chi? Mi ama a tal punto da sacrificarsi per me. Non è più giusto dire che sono ‘suo’, invece di dire che lui è ‘mio’?”
“Professore, professore…con te non discuto; tanto lo so bene che mi puoi girare come vuoi. Non te l’ho mai detto, ma sono proprio contento che ti sia unito a noi. E così pensano tutti gli altri. Siamo un po’ montagnini e non ci piace scoprirci troppo. Beh! Ora vado, c’è Sara che mi starà aspettando ed è meglio che l’aiuti, fatica non poco in questi ultimi giorni. Ciao, buona notte”.
“Buona notte anche a te, Carlo. E saluta Sara”.
Se n’era appena andato, quando sentì bussare leggermente.
“Sì? Avanti, apri”
Era Sofia, la figlia di Caterina, la vecchia del paese. Dicevano, ma appena sussurrato, che era una ‘strega’; nel senso buono del termine, forse una fattucchiera. Qualcuno diceva che era una sensitiva: ti toccava e sapeva tutto di te.
“Ciao, Sofia, entra entra!”
“Ciao Giacomo, ti ho portato una minestra di fagioli, se la vuoi. Te la manda la mamma…e anch’io ovviamente”, e un sorriso le accendeva gli occhi verdi.
Era l’unica che lo chiamava per nome. Ancora una bella donna, forse di cinquant’anni, ma giovanile, energica e dolce. Il prof si illuminava quando la vedeva.
“Grazie Sofia, siete molto gentili, tu e tua madre. Uno di questi giorni farò qualcosa di speciale e sarete tutti invitati, mi sembra il minimo”.
“Oh, non preoccuparti, Giacomo. Quando lo fai, comunque, dimmelo prima, che ti vengo ad aiutare. D’accordo?”
“Certo, Sofia”, ma già era sulla scala e scendeva veloce.
La porta si chiuse e lui rimase per un momento a fissare quell’uscio muto.
Ogni partenza gli trafiggeva il cuore, come quando Elena, la sua Elena, se n’era andata. Erano passati più di trent’anni ormai. Per lei, pensava, avrebbe potutto usare il possessivo ‘sua’. Il mondo aveva continuato a girare, insensibile a tutto.
Si era giunti all’estate, il ventiquattro di giugno, san Giovanni.
Vicino al borgo c’era un’ampia radura, quasi piana. Avevano accatastato legna e fascine e la pira era alta quanto un uomo.
L’antica tradizione celtica, ereditata e trasformata poi dal cristianesimo, si riferiva al sole e al solstizio d’estate. I fuochi dovevano essere lo stimolo perché il sole risplendesse forte e presto divennero il simbolo dell’amicizia virile.
Tutti gli uomini e le donne del borgo s’erano affacendati durante il giorno. Ora riposavano all’ombra di qualche elce, pronti a consumare un pasto frugale con la smania di accendere il falò. L’avrebbero visto anche dal fondovalle, sicuro. Gli uomini e i ragazzi più coraggiosi l’avrebbero saltato quando fosse un po’ scemato. La festa stava per iniziare.
Il prof era seduto sull’erba tenera, tutti intorno alla pira a formare un cerchio. Era calata la notte e i ‘grandi’ avevano acceso le fascine.
In breve le fiamme si alzarono, almeno tre o quattro metri. Il riverbero della luce rendeva i volti quasi spettrali e deformi. Tutti ridevano. Il calore li aveva costretti ad allontanarsi un po’, prima che la peluria delle braccia prendesse fuoco; e si cominciasse a sentire quel caratteristico odore di pollo rosolato. Che, ad ogni modo, in breve avrebbero sentito tutti.
Giacomo era seduto vicino alla vecchia Caterina e a sua figlia. Le aveva aiutate ad alzarsi e a spostarsi indietro.
Una volta sedute fece per abbandonare le loro mani, ma Caterina continuava a trattenere la sua fra le sue vecchie dita. Lo fece sedere al suo fianco, così lui era in mezzo fra madre e figlia. Poi gli parlò piano:
“Sei triste, vero prof?”
“No, Caterina, anzi è un’allegra compagnia e mi sto molto divertendo”
“Sentimi bene, prof. Devi lasciarla andare, chiunque essa fosse. Lasciala! Se, come penso, le vuoi bene, lasciala andare. Sarà sempre con te comunque, ma tu sei quello che deve lasciarla libera”
I ragazzi e i giovani stavano saltando il fuoco, capelli e peli di braccia e gambe bruciacchiati. Il fuoco era basso e faville salivano nel vento della notte.
La gente si stava ritirando salutandosi.
Giacomo si avviò con le due donne, poi la vecchia entrò in casa.
“Buonanotte, Giacomo, diceva Sofia. Mi sono molto divertita. Guarda che bel cielo, guarda lassù”
In alto, sopra la testa, luccicava la w di Cassiopeia. Loro erano un po’ girati e la lettera pareva quasi verticale, una E stilizzata.
“Domani scendo in paese a far delle compere. Mi accompagni?”
Certo, l’avrebbe accompagnata.
Re: Il professore
Roberto.
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Il protagonista è ancora legato al ricordo della moglie defunta, ma la vicina di casa capisce che sta per cedere, basta una piccola spinta...
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Re: Il professore
Buona Pasqua,
Roberto
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Le frasi brevi si alternano alle lunghe, dando maggior ritmo alla trama che si dipana in modo lineare, con qualche digressione utile alla comprensione delle motivazioni alla base del comportamento del personaggio principale. La creazione di scene e dialoghi, concorrono a formare un impianto valido dagli elementi narrativi in equilibrio.
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“Figurati, Carlo. E Sara, come sta?”
“Bene, grazie. Il raffreddore le è passato e posso infine sentirla parlare con la sua voce squillante mentre mi rimprovera perché lascio tutto in disordine. Ancora poche settimane e nasce il secondo!”
Si guardava intorno, nel frattempo:
“Vedo che non smetti mai di leggere, eh prof?” mentre sfogliava il libro rimasto sulla poltrona."
Sopra scrivi che Carlo si era seduto, poi lo trovo che sfoglia il libro che si trova sulla poltrona? Come lo mettiamo Carlo: seduto sulla sedia, oppure che gironzola per la stanza e nota il libro e lo sfoglia? Ho trovato delle ripetizioni, qui su BA abbiamo uno strumento stupefacente che adoperano persino i CE, EDORA, passalo su edora e ti accorgerai di alcune fastidiose ripetizioni. Ultima cosetta, si tratta della cura nel presentare il brano, siamo tra di noi a me non interessa. Tipo la e accentata maiuscola, oppure i punti ecc. A parte questo lo reputo dal mio modestissimo pdv un buon racconto.
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Complimenti ammirati
Re: Il professore
Un caro saluto,
Roberto.
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lo stile narrativo è buono, ache se nella parte descrittiva, soprattutto all'inizio, c'è un uso davvero eccessivo degli aggettivi.
ho notato anche parecchi refusi, tipo la mancanza di spazio dopo i tre punti.
anche la formattazione dei dialoghi è da rivedere: in un dialogo non si va a capo, men che meno col rientro.
la storia, ripeto, è comunque davvero apprezzabile.
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Complimenti per gli abitanti del paesino che l'hanno accolto, non penso capiti sempre, anzi penso che nei paesini isolati sia molto difficile introdursi e venire accettati. Succede sicuramente e io avrei dedicato più spazio a questa cosa, avrei descritto le prime settimane, i primi mesi. Trovo il finale un tantino poco originale.
La Gara 5 - A modo mio
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"La spina infinita" è stato scritto quasi vent'anni fa, quando svolgevo il mio servizio militare obbligatorio, la cosiddetta "naja". In origine era una raccolta di lettere, poi pian piano ho integrato il tutto cercando di dare un senso all'intera opera. Quasi tutto il racconto analizza il servizio di leva, e si chiude con una riflessione, aggiunta recentemente, che riconsidera il tema trattato da un punto di vista più realistico e maturo.
Di Mario Stallone
A cura di Massimo Baglione.
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Nota: questo libro non proviene dai nostri concorsi ma è opera di uno o più soci fondatori dell'Associazione culturale.