Un raglio infinito
Un raglio infinito
Dall’esterno non si notava nessun movimento e il silenzio nella campagna era interrotto solo da quel tintinnio sinistro.
I tre ragazzi erano arrivati di gran carriera, e una volta fermi si guardarono smarriti davanti a quella natura morta.
Misero a terra le biciclette e si avvicinarono al cancello d’ingresso.
Franti mosse inutilmente la maniglia.
Era un giovinetto biondo e dinoccolato, dall’aria pensierosa. Si voltò e guardò gli altri due con gesto di sfida, sospirando e grattandosi l’incurvatura del naso. Non era un bravo calciatore, non ci provava nemmeno a giocare. Studioso quanto bastava, s’intravedeva in lui un futuro da fine intellettuale, di quelli con una logica spiazzante, trasversale. Anche i professori si stupivano per quella visione del mondo così particolare. Un filosofo in erba che frequentava amichetti che negli anni a venire avrebbe sicuramente perso di vista, considerato il netto divario d’intelligenza.
I due fratelli Pasztor non si assomigliavano per nulla. Pasztor I era alto e atletico, un felino dallo sguardo cattivo. Un autentico duro. In paese girava la voce che andasse in città a farsi investire. Si metteva vicino alle strisce pedonali vicino agli incroci, e una volta individuata la vittima, generalmente anziana, faceva finta di farsi investire, per ricavare oltre alle scuse impaurite anche qualche banconota. I compagni lo tenevano a distanza o, nella peggiore delle ipotesi, cercavano di tenerselo buono.
Pasztor II era l’esatto opposto. Non molto alto, grasso, bonario e giocherellone. Era amico di tutti, rassicurante nel suo sguardo amichevole, con una vocina stridula che contrastava con la mole robusta del corpo.
“Cazzo, non ci voleva” imprecò Pasztor I.
“Dai, non fa nulla, tra qualche giorno riaprirà” gli rispose il fratello, ricevendo in cambio un’occhiata torva.
Franti rimase in silenzio a fumare. Arrivava da un altro pianeta e guardava la scena con tranquilla curiosità.
“Ve lo avevo detto” sbottò.
“Che cosa è successo a Mangiafuoco?” chiese Pasztor I.
“Ha preso una pallonata sul naso che non gli permette di stare in piedi per più di venti secondi, poi si deve sedere e appoggiare la schiena. L’hanno messo in malattia e non c’è un custode di riserva. E’ stato Csonakos con un gran tiro a giro” gli rispose Franti.
Nonostante non giocasse a pallone, gli piaceva andare a vedere i compagni di classe all’allenamento. Si presentava sempre vestito da damerino, con un paio di stivaletti di camoscio beige che rimanevano sempre lindi e vergini, anche quando pioveva e il fango occupava gran parte della viuzza per accedere alla panchina. Era sempre stata un mistero quella purezza degli stivaletti, e Franti ne andava orgoglioso, gridando e spingendo chi gli si avvicinava o addirittura tentava di infangarglieli di proposito.
“Che facciamo ragazzi? Si fa un giro in bici?”
La giornata settembrina era ancora calda.
“No. Andiamo a casa” gli rispose Pasztor I.
“Ok, ok, sei nervoso. Avresti voglia di giocare a pallone ma non puoi. Impara ad aspettare il tuo turno. Dovresti imparare dalla Francy, che…”
“Franti, vaffanculo. Vaffanculo e vaffanculo.”
I due ragazzi non si sopportavano e quella provocazione studiata a tavolino colpiva sempre nel segno. Franti non aveva paura di quel bullo, lo teneva sulla corda e si faceva rispettare.
Pasztor II era seduto su un cumulo di terra e osservava muto la scena.
Franti sbuffò e si accese l’ennesima sigaretta.
In piedi, emettendo fumo con la bocca a culo di gallina, si atteggiava ai poeti maledetti dell’ottocento. S’ispirava spesso a Baudelaire, da una foto che aveva visto leggendo I fiori del male. Aveva trovato il volume nella libreria di sua madre e subito l'immaginazione si era incendiata. Amava la figura del dandy, così lontano dagli idoli dei ragazzini tutto calcio e youtube.
“Imbecille, guarda che sta prendendo fuoco la sterpaglia” gridò Pasztor I tutt’a un tratto.
Gli altri due si guardarono sorpresi per poi voltarsi verso quest’ultimo.
Pasztor I si alzò da terra e tutto agitato gridò di nuovo.
“Brucia tutto! Al fuoco!”
Il cerino usato da Franti era finito su un piccolo rovo giallastro, seccato dall’arsura di quell’estate. La pianta aveva preso subito fuoco. La siccità dei mesi precedenti aveva inaridito tutto intorno al campo sportivo e Franti, come i bambini colti in flagrante, inizialmente reagì alzando le spalle fregandosene dell’avvertimento.
Il fuoco ormai aveva avviluppato quel piccolo rovo e si stava propagando intorno.
Franti si spaventò e corse verso l’incendio. Ci saltò sopra con veemenza, con le sue scarpe candide a punta. Impaurito, prese il giubbetto di renna e lo usò a mo’ di coperta. Anche gli altri corsero lì, e cominciarono a saltare e a sputare.
Pasztor II prese della terra e la lanciò sulle fiamme. Come impazziti, tutti correvano cercando di arginare il fuoco.
Franti, sudatissimo e rosso in viso, cominciò ad ansimare. Respirava a fatica, perché non era abituato ai grandi sforzi. Si girò verso il portone per cercare dell’acqua, sperando di trovare un qualsiasi tubo di gomma, di quelli utilizzati per bagnare il campo. Fatica inutile dietro di loro c’era solo il cancello con quel maledetto cartello tintinnante.
Il fuoco si stava ormai propagando alle robinie lì vicine, e le piccole lingue giallo-rossastre cominciavano a salire sempre più, allargandosi di albero in albero. I tre si guardarono in faccia stanchi e sudati, inermi al cospetto del crepitare delle fiamme.
“Sei stato tu” disse Pasztor II.
Franti sentì l’accusa del più buono dei due fratelli come un ago che gli si conficcava nel costato. Non disse nulla. Il giubbetto era ormai mezzo bruciato e le scarpe si erano sporcate nel tentativo di spegnere il fuoco. Gli s’inumidirono gli occhi. Volse lo sguardo intorno, smarrito e indifeso, mentre il calore cominciava a farsi sentire.
Tutti si precipitarono verso le biciclette. Una volta giunti sulla stradina sassosa, cominciarono a pedalare forte.
Superarono la salita con fatica, per imboccare poi la discesa che portava alla strada principale. Continuarono a pedalare a tutta forza.
In cinque minuti arrivarono sulla provinciale. Franti fermò gli altri due.
“Ricordatevi che siamo in tre” disse veloce.
I due fratelli lo guardarono. Erano stravolti, la fatica e la paura aveva modificato i loro grezzi lineamenti. Rimasero in silenzio per qualche attimo e poi ripartirono verso casa. Franti li osservò pedalare a tutta birra e urlò ancora “Siamo in tre.”
Ripartì, attraversando la strada senza guardare. Non passava nessuna macchina e così poté continuare la sua corsa.
Pedalava a tutta velocità, sentendo che le forze stavano per finire. Guardò verso sinistra e vide le fiamme che avviluppavano il bosco. Nel monotono mulinare delle pedivelle si guardava le scarpe sporche, sentendo una gran puzza di merda e di bruciato. Erano arrivate alla fine dei loro giorni e lui non sapeva come spiegarlo a suo padre e a sua madre.
Dopo un quarto d’ora arrivò a casa. I suoi genitori erano ancora al lavoro. Si diresse subito in cantina. Tolse le scarpe e aprì il rubinetto della lavanderia. Le mise sotto l’acqua, cominciando a pulirle. Prese una spazzola trovata sul pianale vicino alla lavatrice. Fregò con forza, gridando e piangendo.
“Dai, dai, bastarde!”
In un primo momento sembrò che le scarpe stessero tornando alla loro antica purezza. “Daiiii, daiiii…” gridava come un invasato. Poi cadde in ginocchio e si sedette contro il muro. La spazzola gialla aveva grosse setole di plastica dura e le scarpe ora erano tutte rigate. Pianse davanti all’irreparabile mutilazione del camoscio vellutato che le ricopriva. Ora sembravano stivaletti da vachero, macchiati e duri, gli mancavano solo gli speroni.
Dopo qualche minuto di scoramento riprese il controllo della situazione. Doveva cercare una scusa con i suoi genitori.
Sapeva che avrebbe dovuto fare l’attore, interpretare un ragazzetto che spaventato dalla visione di qualche piccola macchia aveva cercato di eliminarla e così facendo aveva combinato un bel guaio. Avrebbe dovuto essere pronto nel simulare l’angoscia provata pochi minuti prima. Doveva guardare negli occhi soprattutto sua madre con l’atteggiamento contrito di un povero disgraziato che aveva commesso l’errore e cercava perdono.
E il giubbetto? Lo aveva perso, oppure glielo avevano rubato. Con calma avrebbe pensato alle due possibilità.
Si accese una sigaretta e gettò il cerino nello scarico del lavello.
A piedi nudi, con i calzini azzurri a far bella mostra, sorrise e cominciò a pensare all’incendio. Era stata una giornata disastrosa e per il momento nessuno lo sapeva. Doveva studiare tutti i piani, prima che tutto il mondo ne avesse saputo, e lui avrebbe cercato di sfangarla.
“Aaaaahhhhhhhhhh!” gridò a voce alta nella lavanderia e tutto rimbombò intorno a lui.
Non poteva rimanere fermo ad aspettare. Si rimise gli stivaletti modello vachero e riprese la bicicletta. Uscì a testa bassa per non incrociare lo sguardo di nessuno e ritornò sulla strada principale. Cominciò a pedalare impazzito, con il sudore negli occhi e lo sguardo fisso sulla strada.
In dieci minuti percorse quasi tutto il tragitto fino al campo sportivo. Da un lato la lunga distesa dei campi di granturco imbionditi dal sole di quella calda estate e dall’altro il rumore del fuoco, il suo leggero crepitare nelle fiamme alte che non trovavano ostacolo al loro avanzare. Il bosco indifeso soccombeva, illuminando di rosso l’orizzonte.
Proseguendo, incontrò un signore che conosceva di vista.
“Che è successo?” chiese con il cuore in gola.
“E non lo vedi? Qualche coglione ha appiccato il fuoco al bosco. Gli taglierei la gola a un pirla simile!” gli rispose l’uomo molto arrabbiato.
Franti lo guardò stranito e ripartì. Dopo una curva a gomito, intraprese un piccolo rettilineo. Al termine si apriva un incrocio. Ogni accesso era chiuso al traffico e molte persone erano accorse curiose a vedere lo spettacolo. Poco lontano si vedeva un grande capannone che stava per essere inghiottito dal fuoco.
“Che disastro, Dio che disastro.” Un uomo si teneva la testa tra le mani e urlava.
I pompieri erano già in azione. Tre camion cisterna e un paio di vetture. Lunghi getti d’acqua erano sparati sulle mura pericolanti in fiamme. Si udiva chiaramente lo sbattere delle mucche terrorizzate lungo i rettilinei delle mangiatoie, un ammasso di carne e mammelle muggiva di dolore e di terrore. Anche le povere bestie stavano per essere divorate dal fuoco.
All’improvviso un raglio infinito sezionò l’aria.
Un asino, completamene avvolto dalle fiamme, correva impazzito nel recinto. Era riuscito a fuggire dalla stalla, con la forza della disperazione aveva trovato un pertugio e vi si era infilato. Il fuoco gli dilaniava le carni. Piange, pensò Franti impressionato. L’asino era diventato una torcia, si dibatteva rovesciandosi a terra, rialzandosi accecato e andando a sbattere contro il muro e poi ritornare verso la staccionata. Uno, dieci, centomila ragli perforarono le orecchie di Franti, che chiuse gli occhi in silenzio.
Ritornò verso la bicicletta e si rimise in strada. Ora la pedalata era leggera e armoniosa, sembrava che il mezzo si spostasse da solo. Rientrò a casa senza accorgersene, e la trovò ancora vuota. I suoi genitori erano sicuramente corsi sul posto dell’incendio. Si sdraiò sul letto, così com’era. Stanco e sudato, con gli stivaletti da vachero.
Li attese e appena sentì aprire la porta chiamò sua madre. Disse che aveva mal di pancia. Lei con la solita premura gli preparò una minestrina di riso. Mangiò in fretta e andò a letto. Era venerdì sera, aveva a disposizione un intero fine settimana per pensare al da farsi. Prese un foglio di carta e scrisse alcune regole. Doveva essere inflessibile e deciso nel seguirle.
- Stare zitto.
- Far finta di essere sereno perché l’accaduto non lo sfiorava nemmeno.
- Se le cose avessero preso una brutta piega, doveva negare tutto. Negare sempre.
- Doveva attendere qualche giorno, poi tutto si sarebbe calmato.
- Nell’eventualità di essere messo alle strette, avrebbe potuto ribaltare l’accusa verso i fratelli Pasztor. Avevano una fama poco raccomandabile che calzava a pennello con la situazione.
Si addormentò in un sonno agitato, pieno di mille colori, dove a tratti echeggiava il raglio disperato di quell’asino morente.
Il giorno dopo lesse l’articolo del giornale. In quell’incendio erano morte ventisette mucche e un asino. Fece finta di nulla a tavola, mentre i suoi genitori ne discutevano.
“Sarà stato uno delle giostre” disse suo padre.
“Matteo, come fai a saperlo?”
“L’ha detto Giorgia, la moglie del macellaio. Quando c’è qualche festa nei dintorni, puntualmente accade qualcosa di strano. Chissà come mai!
Sua madre guardò il marito e scosse la testa.
“Matteo, ho letto l’articolo attentamente. E’ stato un incendio fortuito, non c’è nulla di doloso. Per accendere un fuoco potrebbe bastare un fiammifero gettato così, in maniera stupida.”
“Beh…sì…in effetti può essere come dici. Però Giorgia era sicura nel dire quello che diceva. Io le credo. Si è anche giocata i numeri al lotto: ventisette per le mucche, uno per l’asino e sessantacinque per lo straniero che ha appiccato il fuoco.”
“Li hai giocati anche tu?”
“Sì”
“Allora speriamo di vincere” rispose la madre.
Franti continuò a non parlare. La testa frullava come uno spremiagrumi nel tentativo di trovare un appiglio per cambiare discorso. Tanta era la paura di essere scoperto. Sua madre lo avrebbe perdonato ma suo padre sicuramente no.
Molto probabilmente aveva già fatto il solito comizio nei bar per addossare la colpa a qualche extracomunitario. Non sopportava i diversi e se fosse trapelato che dietro l’incendio c’era la mano di suo figlio, la frittata sarebbe diventata troppo appiccicosa.
Finito di pranzare andò in bagno.
Si guardò nello specchio. Sapeva che il raglio dell’asino lo avrebbe svegliato ancora nel cuore della notte. Era il suo destino ormai.
Pianse.
L’esile corpo era scosso da violenti colpi di tosse che cercava di soffocare con un asciugamano. Come si sarebbe comportato Baudelaire? Cos’avrebbe detto o non detto, si chiese.
Vomitò tutto quello che aveva mangiato.
Una volta svuotato lo stomaco si sentì leggero e libero. Si lavò la faccia e scoprì di essere forte, nonostante stesse scivolando in una voragine senza fine. Provò una sensazione di ribrezzo verso se stesso per la codardia studiata per deviare il corso degli eventi. Non è l’errore che fa piccolo l’uomo, pensò, e affermare la verità al mondo lo avrebbe salvato.
Uscì dal bagno e andò in camera. Doveva spiegare ai suoi genitori che le scarpe e il giubbetto si erano irrimediabilmente rovinati nel tentativo di arginare l’incendio. E doveva confessare la sua colpa, quella stupida leggerezza di gettare un fiammifero non ancora spento in quella selva gialla e secca.
Ora aveva solo bisogno di riposare e non pensare. Mise le cuffie e accese lo stereo. Una musica eterea gli riempì la mente. Guardò la copertina di Atom Heart Mother dei Pink Floyd. Sorrise amaro nel vedere la mucca che lo osservava.
Prima di immergersi nello spleen, si ripromise di andare dal sindaco a vuotare il sacco della sua coscienza. Era il padre di un suo compagno di scuola e di lui si fidava.
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Franti andrà davvero dal sindaco a confessare di essere stato lui? Se il nome è un segnale, probabilmente no. Avere buoni propositi è una cosa, realizzarli è tutt'altra.
Commento: Un raglio infinito
La frase "Era un giovinetto biondo e dinoccolato, dall’aria pensierosa." introduce uno stile che non viene poi mantenuto nel resto del racconto
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dramma che sembra elaborato dal protagonista dopo aver assistito ad alcune scene tremende ma che, indipendentemente dal pensiero dell'autore, non credo andrà a confessare le proprie colpe.
perlomeno questo è quanto mi esce dalla lettura, naturalmente è la mia interpretazione e niente altro.
scritto piuttosto bene e con buone descrizioni, è scorrevole e si lascia leggere benissimo.
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Se proprio devo farti un appunto sta nel non aver approfittato dell'occasione da te stesso creata per approfondire il rapporto tra il Franti e la madre.
A rileggerti.
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Commento Un raglio infinito
Un asino, completamene avvolto
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che frequentava amichetti che -- uso del che in sole 4 parole
città a farsi investire... di farsi investire, -- ripetizione
metteva vicino alle strisce pedonali vicino agli incroci ---- vicino... vicino
Si presentava sempre vestito da ... sempre lindi e vergini,.. Era sempre stata – tre sempre in tre righe
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Senza l’uso dei cerini non avrebbe retto la storia dell’incendio, ma un fumatore incallito come Franti che si accende le sigarette con i cerini mi porta indietro, come minimo, agli anni cinquanta, anche se già allora esistevano gli accendini a benzina.
La dinamica della storia appare, a mio parere, molto costruita e poco verosimile.
Un particolare fra tutti. Un asino e ventisette mucche chiuse in una stalla dalle pareti di legno, altrimenti come avrebbero potuto prendere fuoco anche all’interno? E poi: una stalla costruita al limitare di un bosco e nessun contadino nei paraggi, pronto a intervenire? Sono abbastanza pratico di stalle e allevamento di bovini per ritenere la faccenda del tutto improbabile.
Detto questo, il racconto si lascia leggere e la capacita narrativa dello scrittore è indiscutibile.
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Pensavo che il racconto fosse ambientato negli anni ’70: quale adolescente di oggi si metterebbe ad ascoltare Athom Heart Mother, per di più con lo stereo e le cuffie? Anche il vestiario di Franti va in quella direzione, con gli stivaletti a punta e il giubbotto di renna, nonché i fiammiferi. Però si accenna a youtube…
Avrei scritto vaquero piuttosto che vachero.
Al netto di queste considerazioni mi è piaciuto, per la scrittura, la trama e la resa dei personaggi, forse lo asciugherei o svilupperei i punti che ho indicato.
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Re: Un raglio infinito
Se invece state solo rispondendo, non serve specificare.
Ricordatevi anche che il testo del commento deve essere lungo almeno 200 battute.
Vi rimando alle istruzioni delle Gare letterarie.
- Marino Maiorino
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C'è un livello di introspezione estremamente difficile da raggiungere (a mio avviso), che ha a che vedere con l'infanzia/adolescenza. È difficile perché la società in genere tilda negativamente quasi tutto ciò che ha a che vedere con quell'età, soprattutto quando si faccia il paragone con "i problemi dei grandi".
Qui invece c'è un terribile, bellissimo, veritiero racconto di crescita, con un protagonista perfettamente interpretato.
Nulla da eccepire, nemmeno nei dettagli e risvolti psicologici così ben tratteggiati.
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