Maricò
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Maricò
È un moto aspro nel sangue
Che, come un albero, ha radici
E gemme in te.
[…]
Tu hai peccato, cuore periodico;
Ti affogherò irragionevolmente,
Ti lascerò in me perché ti trovino
Più cupo che mai,
Troppo colmo di sangue perché vi scorra il mio amore.
[…]
Andarmene è il mio desiderio;
E dunque andrò,
Ma nella luce dell'andare
Gli attimi sono miei,
Ad altro potrei dedicarli.
La sosta non ha attimi,
ma io o vado o muoio.»
(Dylan Thomas)
Mia zia era un po' come la morte: arrivava sempre per ultima. E questo, ovviamente, infastidiva tutta la famiglia. Non lo faceva per una insana mania di protagonismo o per farsi notare. No! Ma perché se ne dimenticava. Si dimenticava di venire ai pranzi, si dimenticava delle feste, si dimenticava di fare i regali di Natale, e si dimenticava anche del Natale. Così finiva sempre che bisognava chiamarla a casa e intimarle di venire.
L'unica cosa che riempiva la sua esistenza erano i libri: quelli li ricordava tutti a memoria. Erano la sua vera realtà. Quando ero piccolo faceva apparire all'improvviso Sherazade, che mi svelava i segreti delle notti arabe con quella passione e quel sentimento che solo l'esperienza diretta sa suscitare. Io sono cresciuto così: commovendomi, ridendo, sorprendendomi e sognando un mondo profumato di incenso e di bergamotto – falso forse, ma estremamente più piacevole e sensuale di quello reale. La supplicavo di raccontarmi qualche avventura di Don Quixote o di Münchhausen e lei mi rispondeva sempre: «Più tardi! Dopo pranzo»; e se poi se ne ricordava, ero accontentato.
La zia era simpatica così svampita. Però era anche un problema per i fratelli e per noi bambini. Bisognava vegliare e controllare che non lasciasse le cose sul fuoco e che – dopo averle cotte – le mangiasse. Mia madre qualche volta mi ordinava di andare a controllare che non avesse bisogno di nulla. Io correvo a casa sua e ci rimanevo le ore.
Il suo appartamento era situato nel palazzo dietro al nostro, due isolati prima dell'altro mio zio. E tutti noi abitavamo a non più di cento metri da mia nonna. Si potrebbe pensare che i figli avessero scelto spontaneamente di restare vicini alla vecchia madre per assisterla e aiutarla. E invece no! Abitavamo vicino a mia nonna perché lei si credeva il sole e noi eravamo solo i pianeti che le ruotavano intorno. Aveva organizzato tutto nei dettagli: aveva acquistato le case prima ancora che i figli si sposassero; le aveva arredate secondo il suo personale buon gusto; infine le aveva affidate alle cure delle nuore, le quali, fingendo lacrime di gioia, covavano in cuor loro risentimento e vendetta.
Mia nonna aveva un'opinione decisamente buona di sé. Non si attribuiva mai alcun difetto, tranne che per mantenere un minimo di forma. Diceva sempre di essere stata un'ottima figlia, un'ottima studentessa, un'ottima moglie, un'ottima madre, ma di essere rimasta umile. In compenso si rammaricava di non riuscire ad essere migliore di così e in confidenza ammetteva di aver commesso anche lei qualche peccatuccio.
Parlava bene di tutti, ma seppelliva dalle critiche ciascuno. Casa sua era come un porto di mare. La gente andava e veniva in continuazione. Tutti la ossequiavano e lei dava udienza a quasi tutti. Parlava con loro e, naturalmente, parlava di sé senza mai stancarsi. Non era cattiva. Anzi era quasi una pia donna, sempre dedita a opere di carità. Il problema è che aveva un modo tutto suo di dimostrare generosità: una maniera che metteva al centro sempre se stessa e che le dava modo di rifulgere. Ma se glielo facevi notare strabuzzava gli occhi.
L'unico insuccesso nella sua vita era stata la figlia – mia zia – che non si era mai sposata. Si racconta, però, che c'era andata molto vicina. Infatti aveva avuto un fidanzato, che l'amava e riusciva a sopportare le sue amnesie. E probabilmente era anche ricambiato. Un bel giorno lo sventurato, però, le aveva fatto la fatidica domanda e lei aveva risposto emozionata: «Oh Dio, sì! Ho bisogno di pensarci». Quella risposta glie l'aveva suggerita mia nonna, perché non sta bene che una ragazza di buona famiglia accetti senza riserve. Dopo un po' di tempo, però, il poveretto ebbe la malaugurata idea di sollecitare una risposta. Mia zia gli sorrise smarrita e chiese: «Qual è la domanda?». L'infelice amante scappò via piangendo disperato e sconcertato. Di lui si è persa qualsiasi traccia. Pare che abbia avuto un lungo travaglio interiore. C'è chi sostiene che il leggendario fidanzato, non sarebbe altri che il sagrestano della chiesa di Gesù Bambino a Sacco Pastore. Ma sono soltanto voci. In ogni caso la nonna, pur di togliersi di torno quel tormento di figlia, le aveva affidato una delle tre case, dove adesso mia zia abitava da sola.
***
Mi ricordo ancora quel sabato. Sono passati ormai molti anni, ma era un sabato come un altro e sarà stato uguale agli altri. Eravamo a pranzo da mia nonna, così come facevamo già da molti anni e come avremmo continuato a fare per molti anni a venire. E anche allora la zia era in ritardo.
Si era fatto molto tardi e non riuscivamo a telefonarle, forse perché aveva lasciato la cornetta alzata. All'epoca non c'erano i cellulari e se volevi chiamare qualcuno, dovevi affidarti a pesanti arnesi attaccati al muro con un doppino ritorto. La nonna era molto irritata e si aggirava irrequieta per il salone spostando le orrende vecchie sedie di Vienna, eredità di non si sa quale lontano parente scialacquatore, che le aveva acquistate per quell'insana mania che si ostina a rosicchiare anche i più consistenti patrimoni. Il mio quarto fratello, quello più piccolo (aveva meno di un anno), piangeva insistentemente. Mio cugino provava a quietarlo, contorcendo il volto in smorfie che turbavano più che far ridere. Mia madre, che teneva in braccio il piccolo, sembrava preoccupata e rattristata da quella oscena esibizione del nipote. Insomma l'aria era piuttosto tesa e si decise di cominciare il pranzo senza la zia. Non si poteva o non si voleva più aspettare.
A pranzo, oltre che di mia nonna, si parlava di un'altra cosa: politica. Era l'unico argomento che potesse mettere tranquillamente in disaccordo mio padre e mia nonna. Si approfittava di qualunque occasione, di ogni distrazione dell'altro, per introdurre il discorso e per litigarci sopra. Non ricordo quale era stato il pretesto quel giorno. Forse il muro di Berlino da poco caduto. O più semplicemente qualche piccolo scandalo di corruzione che stava iniziando a venir fuori. Tanto bastava perché mio padre potesse subito accusare mia nonna di collusione con esponenti del regime democristiano. A quel punto mia nonna reagiva parlando male dei comunisti e rinfacciando a papà il suo passato craxiano. Da lì in poi era un'apoteosi di retorica, un comizio in piena regola.
Potevano anche essere d'accordo su tutto e affermare entrambi la stessa cosa, ma gridavano in modo tale che chiunque fosse entrato in quel momento avrebbe potuto a ragione pensare che si stesse discutendo su posizioni estreme e inconciliabili. Nella sostanza erano solo due persone arrabbiate, che cercavano di mascherare il vuoto affettivo tra di loro e il bisogno vitale di riconoscimento con questo assurdo accapigliarsi, sterile come certe domeniche passate in casa ad aspettare qualcosa che dia un senso. O forse in cuor loro desideravano semplicemente un po' di rispetto per le loro idee.
All'epoca non lo capivo ancora e anelavo far parte di tutto questo. Cercavo di afferrare il più possibile. Iniziavo ad istruirmi, perché sentivo ruggire dentro di me il desiderio di essere ascoltato con attenzione e approvazione da loro. Fu certamente in quel periodo che cominciai a maturare le scelte più importanti. Dovevo e volevo stabilire da che parte stare. Così decisi di andare a sinistra, perché sapevo che avrebbe dato fastidio a mia nonna.
Poco alla volta conquistai a forza di intemperanze uno spazio nel gotha della tavola: tra quelli che potevano dire la loro gridando. Imparai questa forma particolare di dialettica che si praticava a casa mia e partii all'assalto di mia nonna. Lei, però, era una rocca inespugnabile: viveva di preconcetti sui tempi moderni, le mode e i giovani; e questo io non Io sopportavo. Mi irritava nel profondo, perché in questo modo – parlando male della mia generazione – toglieva valore morale anche a me e alle mie idee. Per anni abbiamo litigato e ci siamo lanciati accuse reciproche. Ho scoperto quanto nauseante fosse ripetere all'infinito sempre le stesse scene. Qualche volta ho cercato di parlare del vero problema: di come non sopportavo il suo modo arrogante di trattare e denigrare le mie convinzioni. Ma lei tornava a ripetermi che ero soltanto un iconoclasta. Così ricominciavamo a discutere di inutili fesserie.
Poi un giorno presi atto con orrore di essere anch'io intrappolato, come mio padre, in quel gioco delirante. Non c'era ormai via di scampo: mi ero formato a quella scuola e il mio modo d'essere e di credere in me stesso erano totalmente condizionati da quell'incessante e vana ricerca di un mio posto a quella tavola. La rabbia e il senso di fallimento che mi consuma ancora oggi è il frutto di quell'incertezza tra la convinzione di non essere mai stato considerato per quello che valevo e il sospetto sempre dominante che, in fondo, era vero che non valevo granché.
Confidai di potermi redimere da tutto questo con il silenzio. Per anni io e mia nonna non ci siamo parlati. Ed ero convinto che fosse giusto così. Ma la verità è che confondevo la giustizia con la pietà. La giustizia è solo divina. Dio ci lascia solo un suo surrogato – la pietà – che ci permette di sentirci in pace con la coscienza. La pietà, però, non abbate i muri che ci dividono e non consente di tornare ad avere un rapporto più giusto con gli altri, fatto di rispetto, tenerezza e sensibilità. Così, quando mia nonna morì, provai un senso di sollievo, ma anche di vuoto: per l'affetto che era mancato e per l'incomprensione che ci aveva diviso.
***
Un pezzo di purè, volando dal cucchiaio di uno dei miei fratelli al piatto di mio cugino, interruppe l'arringa di mio padre. La nonna non lo sapeva proprio preparare il purè. Aveva la stessa consistenza della calce e – si potrebbe sostenere – anche Io stesso sapore. Noi bambini scoppiammo tutti a ridere, Nonna urlò, mamma sgridò il figlio e, infine, l'ordine tornò a regnare attorno alla tavola. Ma nessuno aveva più una gran voglia di parlare. Evidentemente erano tutti abbastanza scocciati dall'andazzo che la disputa aveva preso.
Non si dà mai un gran peso a ciò che si pensa durante una discussione, ma evidentemente la nostra mente elabora altri pensieri mentre parliamo; idee che probabilmente non hanno niente a che fare con l'argomento della conversazione. Fatto sta che quando scende finalmente il silenzio quell'idea sfuggita acquista una sua importanza e, frustrati, la cerchiamo con la coda dell'occhio, come fosse una qualche verità nascosta nell'ombra, pronta ad assalirci a tradimento.
Credo che fosse qualcosa di simile ad aver creato quella pace: la certezza di aver dimenticato qualcosa. Il suono del telefono fu la lama di luce che tagliò improvvisa quella calma impaziente: la zia. Era questo quello di cui c'eravamo dimenticati. Rispose al telefono mia nonna. «Sì, sì! Oh mio Dio!». Un'infermiera parlava all'altro capo. Mia zia aveva avuto un incidente. Stava camminando per la strada ed era svenuta improvvisamente, senza spiegazione. «Dove sta? Come sta?». «Al policlinico. Adesso si è ripresa. La faranno uscire in giornata. Comunque entro domani». «Tutto bene, quindi?». «Non vi dovete preoccupare». «Come sarà successo?», cominciammo a chiederci. Mio cugino azzardò: «Un colpo di sole!». «Il 15 dicembre?!», gli rispose ironica mia madre.
In pochi minuti eravamo per strada e stavamo andando a riprendere la zia. La trovammo sorridente che parlava con una bambina dalla faccia tenera e tranquilla che la ascoltava con attenzione. Ci salutammo allegramente. Scherzando ci facemmo raccontare quello che era successo. Mia zia non dava spiegazioni, non ricordava nulla, sapeva solo di essersi risvegliata sull'ambulanza. La facemmo uscire. Il medico, in realtà, la voleva ancora trattenere per fare qualche controllo, ma mia nonna si impose come al solito suo.
Mentre mia zia veniva aiutata a prepararsi e ancora cianciava con tutte le altre donne che si trovavano con lei nella grande camerata dalle pareti bianche e crepate, guardai la bambina che giaceva nel letto accanto al suo. Aveva chiuso gli occhi e riposava. Era coperta da un camice blu in fibre plastiche come quello dei chirurghi: sterilizzato e dallo spiacevole odore di farmaci e anestetici. Sembrava la Morte della Madonna del Caravaggio con quei capelli lunghi, biondi, sparsi sul cuscino. Mio padre chiese ad un'infermiera che cosa avesse. Riuscii a sentire una sola parola: epilessia. Io non avevo mai visto un'epilettica. A dirla tutta non sapevo neanche cosa fosse l'epilessia. Purtroppo lo scoprii non molto tempo dopo.
Uscita dall'ospedale la zia andò a dormire per qualche giorno da mia nonna, ma tutto sembrava tranquillo in quel periodo. Così ci rasserenammo.
***
Mia zia è morta da almeno trent'anni. È morta di un tumore al cervello di cui si è accorta troppo tardi. È morta felice e incosciente. Alcuni giorni prima la potevi incontrare in giro per il quartiere che sorrideva pallida, magra e senza capelli e ti raccontava che stava bene e voleva andare a comprare un libro che aveva intenzione di leggere nei prossimi giorni. «Il fatto è che ho così tanti impegni, che non trovo il tempo», ti diceva. Davanti a quelle parole non osavi fare riferimento alla sua malattia. Sembrava quasi che se ne fosse dimenticata; e forse se ne era veramente scordata. Io me Io auguro, perché con quell'atteggiamento rendeva l'attesa della morte una serena opportunità per il futuro.
Al funerale venne molta gente sconosciuta; ignota almeno a noi. E il sagrestano della parrocchia di Gesù Bambino a Sacco Pastore pianse tanto. A un parente che tesseva le lodi funebri di mia zia, la nonna aveva risposto: «E vabbè! Amen!». Amen: così sia. Un'espressione dalla doppia faccia: da una parte simbolo della gioia umana nell'abbandonarsi alla volontà di Dio; dall'altra segno di disfatta di fronte al destino. Ma davanti a questa sconfitta non è necessario cercare una spiegazione; né è sensato ribellarci e per questo essere infelici. Dobbiamo solo convincerci che, in fondo, i nostri peccati non ci appartengono, abbandonati come siamo in un mondo vagamente allucinante e mostruosamente crudele. E, se vogliamo, possiamo perdonare e scordare i rancori, le stupide battaglie e le illusioni smarrite da qualche parte nel tempo. Impedire con tutte le forze a queste cose tremende di riaffiorare e lacerarci il cuore. Dimenticare tutto ed essere felici come mia zia.
Dipinto di Vittorio Matteo Corcos, Sogni, 1896, Galleria Nazionale d'Arte Moderna, Roma
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forse è troppo raccontato, non so, comunque lo trovo lento, senza dinamismo.
e ci sono cose su cui non concordo.
io stesso ho sofferto di epilessia per oltre venti anni, poi ho avuto una collega di lavoro col medesimo problema e posso dire che non è una malattia così discriminante da toglierti dalla società.
il testo è ben scritto, senza particolari errori o refusi, però alla fine non è che mi resti molto in mano
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Re: Maricò
Non so perché ti abbia colpito tanto la faccenda dell'epilessia. Cmq non riguarda me. Mia zia è morta di un tumore al cervello e tra i sintomi che provoca c'è l'epilessia. La prima volta che fu colpita da un attacco è un momento che non scorderò mai.
Tutto qui! Non era un giudizio su chi soffre di epilessia.
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Re: Commento
Grazie Roberto! Hai ragione su tutto. Anch'io sinceramente lo trovo "divagante", ma tutto questo ha la sua spiegazione. Il racconto l'ho scritto molti anni fa, quando avevo vent'anni, su consiglio di un amico psicologo. Più che un racconto è per me una seduta di terapia. E' il modo in cui ho cercato di affrontare diversi momenti bloccanti: la paura della morte, la fatica del riconoscimento, la carenza di auto-stima. C'è un po' tutto perché vi ho riversato tanto (forse troppo) di me. Tant'è vero che in tutto questo tempo lo hanno letto solo in tre persone e tutte molto intime.RobertoBecattini ha scritto: ↑26/01/2022, 18:26 Ciao! Dunque, mi è piaciuto molto per i contenuti. Il ritratto di famiglia in un interno (o inferno?) è efficace, vai sul sicuro. La struttura è un po' divagante tra la descrizione iniziale della zia, quella della nonna e il rapporto del narrante e degli altri membri della famiglia con la nonna, per poi tornare alla zia e alla sua morte. Mi sembra che tu abbia messo troppa carne al fuoco. Forse la parte meno interessante è quella del conflitto generazionale nipote-nonna. "Sacrificandola" il racconto ne guadagnerebbe forse in fluidità. Opinione personale ovviamente. L'ho comunque letto con piacere.
Quando l'ho ripreso in mano qualche giorno fa, dopo anni in un cassetto, ho voluto rivederlo e adattarlo un po'. Questo perché molte cose sono cambiate da allora. Intanto mia nonna è nel frattempo morta. Ma soprattutto anch'io sono cambiato e non sono più lo stesso me di allora. Ho pensato, nel rivederlo, se cassare la parte centrale (sicuramente la più pesante). Ma c'era così tanto dentro di me che era come tagliarsi un pezzo d'anima. Avrei fatto un Horcrux.
E così alla fine è rimasto così. In fondo non parla veramente di mia zia, ma di me.
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Re: Commento
Grazie Francesco! Sì, purtroppo salto di palo in frasca. Il collegamento tra mia nonna e mia zia manca, perché mia zia - almeno nei termini in cui ne ho raccontato - non esiste: lei rappresenta all'inizio la mia fuga dalla realtà e successivamente, dopo la morte, il desiderio di dimenticare e perdonare me stesso e la mia famiglia. Quindi è il legame con mia nonna il vero centro del racconto.Francesco Pino ha scritto: ↑28/01/2022, 12:51 Secondo me salti un po' troppo da un argomento a un altro, però, in una certa maniera, ci sta. Sai cosa manca per me? Il legame tra il comportamento della zia e quello della nonna, ho sperato fino alla fine del racconto che venisse fuori qualcosa tipo "ecco perché la zia si comportava così, era una reazione verso la nonna".
Mi hai ricordato tanto i pranzi domenicali della mia famiglia, sono cresciuto osservando mio padre e mio zio che litigavano di politica a tavola con le rispettive mogli indispettite e rassegnate. Quel quadro alla fine poi... vabbè, cose mie.
Nella storia ci hai messo dentro anche alcune riflessioni e non è male, come non è male l'idea della fantasia per fuggire dalla realtà.
Voto: 3 o 4? 3 e mezzo non si può, facciamo 4.
La morte di mia zia è il passaggio alla fase adulta per me: il non potermi più rifugiare in un mondo tutto mio in cui sono il più forte, il più bravo e il più giusto. Sono tutte cose che ho vissuto effettivamente nella mia coscienza. Da bambino mi rifugiavo spessissimo in un mondo in cui la stima e il rispetto per me erano ai massimi livelli, per compensare le frustrazioni della mia vita infantile e di un eccesso di aspettative nei miei confronti.
Nel resto della mia esistenza ho dovuto fare i conti con tutto questo e trovare finalmente un modo per superarlo.
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Re: Commento
Grazie mille! La zia sbadata è un'invenzione, ma mia zia è veramente morta per un tumore al cervello a 35 anni.Egidio ha scritto: ↑28/01/2022, 14:58 A me, il tuo racconto è, invece, piaciuto molto. Segnalo un refuso: abbaterono e una frase che inizia con "Ma". Il ritmo è lento come un pacato fluire di ricordi; verosimili l'ambientazione, i personaggi e le situazioni. Il linguaggio ricorre perlopiù a periodi brevi, incisivi. Riuscita la trovata (oppure, il riferimento è reale?) della zia sbadata, e valida la vena umoristica che affiora qua e là.
Faccio subito le correzioni che mi hai evidenziato. Grazie ancora!
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Re: Maricò
Grazie! Ne terrò conto.
Ti devo chiedere di mettere Commento nel titolo della tua risposta, altrimenti non è valida.
Grazie ancora!
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Re: Commento
Grazie mille Sandro per i complimenti. Mi fa piacere che ti sia piaciuto il racconto. Anche il tuo era molto bello. A presto!Sandro Dilaghi ha scritto: ↑31/01/2022, 13:42 Ciao Domenico, ho appena finito di leggere il tuo racconto.
Te lo devo dire, è davvero bello. Mi ha lasciato qualcosa. E' scritto molto bene e scivola via con piacere. E' scritto in modo "elegante". Sul serio, mi è piaciuto.
Penso che il modo in cui tu hai descritto quella cosa che è "la famiglia" e l'hai smascherata sia di un livello superiore. Penso che tu abbia descritto l'orrore della famiglia italiana. O forse di tutte le famiglie del mondo no? Se non tutte la maggior parte.
Cazzo, era per me perfetto il tuo racconto. Fino all'ultimo paragrafo in cui proponi la tua visione e il tuo "insegnamento" diciamo così. Non ce n'era bisogno. Io non lo volevo quell'ultimo paragrafo, capisci?
Per me bisogna solo staccarsi nettamente e definitivamente dalla propria famiglia, tutto qua. Poi sì che arriva la leggerezza.
Complimenti.
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Vero, la famiglia può essere un inferno; però è anche l'ambiente che può farti maturare, magari solo per reazione a qualcuno o a qualcosa.
Credo che sia meglio un litigio, un confronto a muso duro su opinioni opposte, che il silenzio o il rifugio nello schermo del proprio smartphone per condividere solo la reciproca estraneità.
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Re: Commento
Ti ringrazio molto per la tua riflessione. E' vero quello che dici. La mia famiglia ha avuto un duplice ruolo: da una parte ha fatto maturare in me interessi e senso critico; ma dall'altra, purtroppo, ansia, insicurezza, insoddisfazione e un'aggressività nel discutere che, ti assicuro, sono veramente macigni. Il confronto è sicuramente meglio dello smartphone (in cui oggi mi rifugio spesso durante i pranzi - ben colto da parte tua!), ma difficile da gestire a livello emotivo.Andr60 ha scritto: ↑01/02/2022, 12:16 A me il racconto ha fatto venire in mente, oltre ai pranzi domenicali con zii e cugini di un secolo fa, anche il film di Scola, nel quale invece della nonna dispotica c'era un patriarca.
Vero, la famiglia può essere un inferno; però è anche l'ambiente che può farti maturare, magari solo per reazione a qualcuno o a qualcosa.
Credo che sia meglio un litigio, un confronto a muso duro su opinioni opposte, che il silenzio o il rifugio nello schermo del proprio smartphone per condividere solo la reciproca estraneità.
Commento: Maricò
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Re: Commento: Maricò
Grazie Eliana! Le tue domande mi hanno fatto riflettere.
Premetto, perché è importante, che il racconto l'ho scritto 25 anni fa, quando avevo poco più di vent'anni. Quindi in una fase dell'esistenza in cui si inizia ad affrontare la vita senza paracadute. E' un racconto che si ispira a vicende personali. L'ho un po' rivisto prima di pubblicarlo in concorso, ma nella sostanze resta lo stesso.
1) Perché "Maricò"? Maricò, Maria Concetta, era il nome di mia zia. Naturalmente il personaggio che ho raccontato è di fantasia, tranne per il fatto che mia zia è effettivamente morta di cancro al cervello a 35 anni. Non avevo un rapporto particolare con lei. Era solo mia zia. Però l'evento della sua malattia e poi della morte mi ha condizionato fortemente. E' stata una lunga e dolorosa malattia, non solo per lei ma per tutta la famiglia. Ha lasciato un marito e una figlia di 4 anni. In quel momento ho iniziato ad aver paura della morte e della malattia. Non per me, ma per coloro a cui mi sarei legato per la vita: mia moglie, i miei figli. Ho cominciato a pensare che io un simile dolore non sarei in grado di sopportarlo. Poi la vita ha fatto il suo corso, mi sono sposato e ho fatto due figli. Questa paura, però, resta sotterranea. Per questo ho dedicato il racconto a mia zia, perché è lei in qualche modo ad avermi costretto ad affrontare tutto questo: nel bene e nel male.
2) Perché il riferimento all'epilessia? Il tumore al cervello può causare attacchi epilettici e, naturalmente, mia zia li ha avuti. Ricordo la prima volta che ne ebbe uno. La cosa mi spaventò moltissimo. Tutti si stavano occupando di lei e io rimasi solo un intero pomeriggio con questa sensazione di disagio. Alla sera scoppiai in un pianto liberatorio. Non so perché ho inserito l'epilessia nel racconto. E' una cosa che risulta sospesa. Evidentemente per me è così legata al ricordo di mia zia che non ho potuto eliminarla, ma neanche spiegarla.
3) E' voluto il fatto che mancano nomi e descrizioni fisiche? Non lo so se è voluto. Al solito mi devo rifare ad un movente inconscio. Penso che i nomi manchino, perché ciò che veramente conta per me sono i legami di parentela: papà, nonna, zia, ecc. Sono i nomi che definiscono un contesto intimo e nascosto, in cui possono sorgere e formarsi i traumi più complessi e difficili da superare. Per lo stesso motivo non ho utilizzato descrizioni fisiche, in quanto i personaggi in sé valgono solo come bisogni emotivi, meccanismi interiori e coazioni comportamentali. Non è la loro realtà storica al centro, ma quella psichica: sono fondamentalmente istanze complesse del mio Io.
Spero di aver risposto alle tue domande.
Grazie per avermi dato modo di rifletterci.
A presto!
Re: Maricò
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Re: Commento
Grazie Laura! Sì, avendolo scritto soprattutto per me stesso ho dato per scontato il significato del titolo. E' una dedica ad una persona che ha avuto, non volendolo, un peso forte sulla mia esistenza. Grazie ancora!Laura Traverso ha scritto: ↑03/02/2022, 16:26 Ben delineati i personaggi, curate le descrizioni dei luoghi, abbastanza avvincente la trama, anche se, dal mio punto di vista, andrebbe ridotta in lunghezza. Circa il titolo, del quale hai spiegato che è il diminutivo di tua zia, lo si capisce solo dai commenti. Non mi pare che durante il racconto ciò venga espresso, quindi risulta non esserci alcun nesso, per chi non sa. Comunque bravo.
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Dal punto di vista formale non ho nulla da segnalarti, dimostri una grande padronanza del linguaggio e degli strumenti narrativi: a parte quel -mia zia- tra due trattini che io avrei evitato.
E se il racconto pare, come sottolinea Fausto, troppo raccontato con uno spazio all'apparenza eccessivo concesso all'io narrante a discapito dei dialoghi, io ritengo come, data la mole di riflessioni e spunti e, soprattutto, l'ampio arco temporale del narrato, non avresti potuto fare altrimenti.
Ah, dimenticavo: ma il tuo titolo? Che significa? Non ti sarà sfuggito che suona simile a una certa parola castigliana.
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Re: Commento
Grazie Namio per il generoso commento! E' un racconto autobiografico nato molti anni fa (avevo una ventina d'anni) su consiglio di un amico psicologo. Come giustamente dice Fausto è "troppo raccontato" e pecca di ingenuità giovanile, che ho cercato di limare qua e là. Non me la sono sentita, però, di modificarlo radicalmente, ma solo di aggiornarlo un po' (all'epoca della prima stesura, ad esempio, mia nonna era ancora viva). Come ho già risposto a Roberto Beccatini più che un racconto è per me una seduta di terapia. E' il modo in cui ho cercato di affrontare diversi momenti bloccanti: la paura della morte, la fatica del riconoscimento, la carenza di auto-stima. C'è un po' tutto perché vi ho riversato tanto (forse troppo) di me. Tant'è vero che in tutti questi anni lo avevano letto solo in tre persone e tutte molto intime. Poi il tempo ha cambiato la mia essenza-esistenza e non lo sento più come una cosa troppo personale. Così oggi ho sentito il bisogno di condividerlo.Namio Intile ha scritto: ↑04/02/2022, 11:11 Mia suocera se n'è andata con tumore al cervello, rarissimo da un caso ogni milione di abitanti la casistica. Era inoperabile e a detta dei neurologi può darsi che fosse stato lì fin dalla nascita crescendo lento sino a infiltrarsi in ogni recesso cerebrale. Dalla diagnosi la speranza di vita stimata era di sei mesi e così fu. Mia suocera era sempre stata, a detta di chi l'aveva conosciuta da sempre, stravagante, svampita, singolare, e alla fine della sua vita io e sua figlia ci siamo chiesti se non fosse stato proprio il tumore la causa di tanta peculiarità caratteriale, al pari dei furibondi mal di testa che impegnavano tutta la famiglia in una rincorsa continua all'analgesico più efficace. Una malattia che cresce con te e diventa parte di te, fino a plasmare la personalità e quindi la vita tua e di chi ti sta intorno. Ciò mi fa pensare quanto le nostre esistenze siano condizionate da fattori interni (per non dire di quelli esterni) difficili anche solo da immaginare, figurarsi condizionare: e come ogni tentativo di mettere in riga, incasellare, le nostre capacità, i nostri meriti e demeriti, sia del tutto vano, anzi velleitario. Pensavo appunto alla tua meritocrazia. A ogni buon conto, il racconto mi è piaciuto, permeato da amare e profonde riflessioni sul senso della vita e quello della famiglia e in ultima analisi sulla propria condizione esistenziale. Un po' come La Nausea di Sartre, paragone ardito; io l'avrei intitolato Andarmene è il mio desiderio, citando i versi di Thomas, o parafrasandoli, perché dimenticare pare l'unica possibilità per essere felici come l'io narrante ci propone nel finale. Non credo alla felicità come oggi viene intesa, un altro di quei brutti lasciti anglosassoni, se nel De Vita Beata (oggi da qualche editore maldestro tradotto Sulla Felicità) Seneca raccomanda di non occuparsi della felicità. Tant'è che oggi tutti sono alla ricerca della felicità, con esiti infausti per tutti a mio avviso: vivere in vista di una meta mi pare una follia deleteria. Nel tuo racconto focalizzi l'attenzione sul protagonista, senza mai nominarlo (come tutti gli altri membri della famiglia), come sulle due donne, la nonna e la zia, l'una opposta all'altra, ma entrambe unite in modo indissolubile quasi una sorta di Giano bifronte. E in mezzo a loro il bambino poi adulto che prova a farsi spazio tra tanti ingombranti personaggi sino ad accorgersi di esserne rimasto schiacciato come lo è stato il padre, senza aver potuto opporre resistenza. Toccante quel riferimento ai libri come unica vera realtà, ma in definitiva è questa una piccola verità. Attraverso le parole contenute nei libri possiamo conoscere il pensiero di altre persone, le quali solo in quella peculiare concentrazione che implica l'atto di scrivere riescono a mettere a nudo le loro esistenze e la vita stessa. Va da sé che esistono pensieri e pensieri, persone e persone. Esamini il conflitto, latente in ogni famiglia, tra chi ha già vissuto la propria esistenza e chi deve ancora farlo, con quella chiusa finale sull'Amen, riuscita e profonda che stai sicuro ti copierò. Un racconto sulla cattiveria della famiglia, ma anche della sua ineluttabilità nella formazione delle coscienze. Nel finale la riflessione si sposta sulla Necessità dell'Oblio come unica arma a disposizione per riuscire a non essere "infelici". Splendido l'aggancio finale che chiude il racconto.
Dal punto di vista formale non ho nulla da segnalarti, dimostri una grande padronanza del linguaggio e degli strumenti narrativi: a parte quel -mia zia- tra due trattini che io avrei evitato.
E se il racconto pare, come sottolinea Fausto, troppo raccontato con uno spazio all'apparenza eccessivo concesso all'io narrante a discapito dei dialoghi, io ritengo come, data la mole di riflessioni e spunti e, soprattutto, l'ampio arco temporale del narrato, non avresti potuto fare altrimenti.
Ah, dimenticavo: ma il tuo titolo? Che significa? Non ti sarà sfuggito che suona simile a una certa parola castigliana.
Il titolo Maricò non ha niente a che fare con il maricon . Era il vero nome di mia zia: una sorta di dedica.
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gran bel racconto, da cui traspare in modo forte e chiaro che si tratta di un’esperienza giovanile da te realmente vissuta. Tutte le emozioni descritte, dal disagio interiore al risentimento verso la nonna, così come l’affetto nei confronti della zia un po' svampita, non sarebbero altrimenti descritte in modo così efficace. Ho trovato poi particolarmente azzeccato quel freudiano dimenticarsi degli eventi familiari della zia… Interessante anche l’ironia di fondo nel raccontare le vicissitudini di questa tipica (o atipica, scegli tu) famiglia italiana.
Il racconto è, forse, dato l'argomento, un po' lungo, ma la lettura comunque risulta piacevole fino alla fine, nonostante non ci siano particolari eventi che movimentino la storia, fatta naturalmente eccezione per la dipartita della zia. E poi ti capisco quando scrivi che è difficile eliminare o anche solo compendiare le proprie riflessioni quando si raccontano degli eventi strettamente connessi al proprio vissuto. Giustamente, soprattutto in questi casi, si scrive innanzitutto per sé stessi, e solo in seconda battuta per gli altri.
Ti segnalo un refuso: "Dopo un po' di tempo, pero, il poveretto ebbe la malaugurata idea di sollecitare una risposta."
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Re: Commento
Grazie per i complimenti! Non pensavo sinceramente che il racconto avrebbe riscosso tanti buoni giudizi. Qui ho letto dei racconti molto più ricchi di intelligenza e di fantasia. Compreso il tuo.Messedaglia ha scritto: ↑19/02/2022, 11:23 Ciao Domenico,
gran bel racconto, da cui traspare in modo forte e chiaro che si tratta di un’esperienza giovanile da te realmente vissuta. Tutte le emozioni descritte, dal disagio interiore al risentimento verso la nonna, così come l’affetto nei confronti della zia un po' svampita, non sarebbero altrimenti descritte in modo così efficace. Ho trovato poi particolarmente azzeccato quel freudiano dimenticarsi degli eventi familiari della zia… Interessante anche l’ironia di fondo nel raccontare le vicissitudini di questa tipica (o atipica, scegli tu) famiglia italiana.
Il racconto è, forse, dato l'argomento, un po' lungo, ma la lettura comunque risulta piacevole fino alla fine, nonostante non ci siano particolari eventi che movimentino la storia, fatta naturalmente eccezione per la dipartita della zia. E poi ti capisco quando scrivi che è difficile eliminare o anche solo compendiare le proprie riflessioni quando si raccontano degli eventi strettamente connessi al proprio vissuto. Giustamente, soprattutto in questi casi, si scrive innanzitutto per sé stessi, e solo in seconda battuta per gli altri.
Ti segnalo un refuso: "Dopo un po' di tempo, pero, il poveretto ebbe la malaugurata idea di sollecitare una risposta."
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Grazie anche per avermi segnalato il refuso, che ho subito corretto.
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Re: Commento
Grazie per il tuo commento! Sorprende quanti abbiano vissuto esperienze simili in famiglia.Mithril ha scritto: ↑21/02/2022, 21:43 Molto riuscita la caratterizzazione della famiglia e del protagonista, poi proprio quando inizia a sentirsi un po' la mancanza di avvenimenti tra una digressione e l'altra purtroppo qualcosa accade. Trovo toccante ripensare a certi momenti dati per scontati o addirittura vissuti come un peso da ragazzino e le descrizioni delle discussioni a tavola mi han riportato alle tavolate di Natale con tutti i parenti di quando ero piccolo.
Non ho trovato refusi o errori.
Bel racconto
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Grazie Piero! C'è una corrispondenza tra la figura della zia e la donna ritratta: lo sguardo "sognante", i libri, la posa eccentrica. Per me non è solo didascalica, ma è parte del discorso.Macrelli Piero ha scritto: ↑22/02/2022, 12:44 Trovo molto piacevole allegare immagini o musiche a corredo del racconto. Io lo faccio spesso. Potrebbe sembrare insicurezza da parte dell'autore, ma io non credo sia così almeno nella fase concorsuale; dopo di che l'opera deve stare in piedi da sola. Qui c'è molta carne al fuoco. Forse troppa.
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Mi piace il pov del racconto, il tu ragazzino al quale sono affidate le considerazioni, alcune anche molto profonde. Bella la figura della zia un po’ svampita e simpatica, segnata da un tragico destino; ecco, lei mi aspettavo che avesse più spazio, anche se le tue spiegazioni mi hanno chiarito il suo ruolo.
Padroneggi molto bene l’arte di raccontare, quindi ti invito a rimetterci mano, perché credo che qui ci sarebbe materiale da sviluppare.
Quella chiusa finale mi ha fatto venire in mente una frase che si adatta sempre a questo tipo di storie, l’incipit di Anna Karenina: “Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece infelice a modo suo.”
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Grazie Roberto! Che intendi con "ti invito a rimetterci mano, perché credo che qui ci sarebbe materiale da sviluppare"? Farne una cosa più lunga o migliorarlo? Grazie ancora!Roberto Bonfanti ha scritto: ↑27/02/2022, 21:41 Premetto che le saghe famigliari mi appassionano, non so realmente perché, forse vi cerco affinità e divergenze con le vicende a me vicine, forse per la pluralità di personaggi in gioco, legati fra loro da relazioni complesse e mutevoli. Questo per dire che le divagazioni, e ce ne sono, non mi hanno disturbato nella lettura, che ho trovato davvero interessante.
Mi piace il pov del racconto, il tu ragazzino al quale sono affidate le considerazioni, alcune anche molto profonde. Bella la figura della zia un po’ svampita e simpatica, segnata da un tragico destino; ecco, lei mi aspettavo che avesse più spazio, anche se le tue spiegazioni mi hanno chiarito il suo ruolo.
Padroneggi molto bene l’arte di raccontare, quindi ti invito a rimetterci mano, perché credo che qui ci sarebbe materiale da sviluppare.
Quella chiusa finale mi ha fatto venire in mente una frase che si adatta sempre a questo tipo di storie, l’incipit di Anna Karenina: “Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece infelice a modo suo.”
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Allungarlo, penso che la storia reggerebbe almeno un racconto lungo o un romanzo breve. Gli spunti ci sono: la zia, il rapporto figlio-padre-nonna, la figura appena accennata della madre… Proprio perché è già buono così potresti scriverne ancora.Domenico Gigante ha scritto: ↑28/02/2022, 11:21 Grazie Roberto! Che intendi con "ti invito a rimetterci mano, perché credo che qui ci sarebbe materiale da sviluppare"? Farne una cosa più lunga o migliorarlo? Grazie ancora!
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Grazie!Roberto Bonfanti ha scritto: ↑28/02/2022, 11:35 Allungarlo, penso che la storia reggerebbe almeno un racconto lungo o un romanzo breve. Gli spunti ci sono: la zia, il rapporto figlio-padre-nonna, la figura appena accennata della madre… Proprio perché è già buono così potresti scriverne ancora.
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Grazie Fra! Penso che abbiate ragione. Sarebbe anche un modo per andare oltre l'originaria funzione terapeutica o addirittura approfondirla.FraFree ha scritto: ↑01/03/2022, 22:35 Come ti hanno suggerito già, potresti costruirci un romanzo con tutti questi input. Di argomenti interessanti ne hai e solo con le peculiarità della zia ne uscirebbero vari capitoli. Comunque, penso sia un buon lavoro anche come racconto breve.
I personaggi sono caratterizzati bene. Leggendo, quasi mi sembrava di farne conoscenza dal vivo.
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