Quell’ultimo giro di valzer
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Quell’ultimo giro di valzer
Avevo percorso poco più di un centinaio di metri, quando mi sono ritrovato al centro di una multietnica gioventù femminile, che con mosse seducenti e frasi audaci esibiva un fermento di corpi seminudi nel gelo autunnale.
Non sono nato ieri e la presenza del popolo della notte non è più una sorpresa, eppure quell’apparizione repentina mi ha procurato una stretta al cuore, tant’è per me inaccettabile osservare delle adolescenti costrette a recitare scene avvilenti e subire abusi che infangano le loro vite.
Ho sofferto nel considerare, ancora una volta, come la società nella quale vivo preferisca fingere di non vedere, piuttosto che sporcarsi le mani combattendo contro questo strazio. L’imbarazzo e il tormento erano così forti che non sono riuscito a pronunciare nemmeno una parola, e con la testa bassa sono scivolato via, quasi correndo.
Aprendo la porta di casa, le emozioni appena vissute mi hanno acceso curiosità e memorie lontane, legate ad avvenimenti della storia patria, sepolti da decenni nell’oblio.
Quanti saranno gli italiani, mi son chiesto, che tuttora rammentano quelle pompose passeggiate in carrozza per le vie del centro che un’abbondante dozzina di allegre signorine, sbarcate fresche fresche alla locale stazione ferroviaria, compiva con regolarità quindicinale, prima di procedere al rimpiazzo del personale “di ruolo” nei vari bordelli, in quel tempo operanti un po’ ovunque, su e giù per la penisola? Era questa una ricorrenza assai popolare, celebrata in ogni borgo che avesse il “piacere” d’ospitare almeno una di quelle leggendarie case chiuse, cosi soprannominate dal giorno in cui, nel lontanissimo 1888, una scrupolosa legge del Regio Governo impose, per il loro funzionamento, una serie di regole categoriche, tra le quali vi era, per l’appunto, l’obbligo di mantenere le persiane perennemente accostate, i vetri oscurati e le finestre sbarrate; inoltre, essendo consentita una sola porta d’ingresso, si doveva murare qualsiasi comunicazione con altre abitazioni, case, quartieri, stanze private o botteghe.
Accertata l’impossibilità di sopprimerle, la bigotta morale italiana di fine ‘800 comandava, senza mezzi termini, che quei luoghi di perdizione, regni dell’amore mercenario, fossero il più possibile mimetizzati agli sguardi innocenti dei cittadini per bene, pur sapendo che molti di quei cittadini, cosiddetti “per bene”, non avrebbero resistito alla tentazione di veloci scappatelle, come sarebbe facilmente dimostrabile interrogando sull’argomento qualche nostro parente un po’ avanti negli anni. Si scoprirebbe allora che la folla di avventori, attivi in quei lupanari, apparteneva a tutti i ceti sociali: modesti e facoltosi, scapoli e ammogliati, laici e religiosi. A questo proposito, un antico adagio veneziano riassume, con l’arguzia che contraddistingue quel popolo di naviganti, la morale genuina della nostra cara italietta: «La matina ‘na meseta, dopo disnar ‘na basseta e la sera ‘na doneta», che tradotto recita grossomodo: «Una Messa la mattina, dopo pranzo una partitina (a carte) e la sera una donnettina».
La struttura interna delle case chiuse era all’incirca sempre la stessa, sia si trattasse di case di lusso, frequentate dalla quotata borghesia, o di categoria inferiore, zeppe di soldati, contadini e gente di passaggio. All’ingresso si trovava il bar con accanto uno spazioso salone, arredato con comode poltrone, utili affinché la fauna maschile avesse modo di ammirare e scegliere la ragazza adatta alla bisogna, mentre era nelle camere ai piani superiori che i maschi avrebbero poi consumato qualche scampolo d’effimera voluttà.
In quegli anni, valutata l’assoluta indisponibilità del gentil sesso, eccezion fatta per pochissime encomiabili signore maritate, era tradizione assolvere l’esigenza dell’iniziazione maschile mediante il passaggio in una di queste case. Una tradizione rimasta fino alla conclusione di quella lunghissima parentesi del costume nazionale, disciplinata ma non vietata dal codice civile, che implicitamente ne ammetteva la sua necessità.
Un discorso completamente opposto va fatto per chi stava dall’altra parte della barricata. I ritmi di lavoro costringevano le signorine a trascorrere una povera vita da carcerate, per essere infine sostituite, alla stregua di un logoro strofinaccio, trascorsa la canonica quindicina. Raccolte in una nuova “squadra” e restaurate alla meglio, affrontavano il trasloco in una diversa città, dove il calvario sarebbe immediatamente ripartito.
Probabile che l’ultimo girotondo, quello del 20 settembre 1958, anteriore di un solo giorno all’entrata in vigore della legge di abolizione delle case chiuse, sia rimasto ben impresso nella mente di una grossa fetta d’italiani, per sentito dire, se non per personale testimonianza.
Qui da noi l’avvenimento fu celebrato in un tripudio di paillettes, lustrini e cosce al vento, con raduno finale nella centralissima piazza Monte Grappa, all’ombra della torre littoria. Volendo coinvolgere proprio tutti, i tenutari dei postriboli cittadini, accantonate le tradizionali rivalità, avevano assoldato pure la banda municipale, incaricandola di suonare quell’ultimo giro di valzer che chiamasse a raccolta tutti gli uomini validi, spronandoli a festeggiare virilmente la serata conclusiva, prima della chiusura definitiva dei casini.
Di quella giornata memorabile, conservo un ricordo preciso, anche se all’epoca, avendo solo otto anni, non ebbi modo di comprendere fino in fondo l’avvenimento e tanto meno il motivo per cui nonno Gustavo mi condusse in piazza, in gran segreto da mamma e papà.
Qualche anno più tardi, quando ne afferrai meglio il significato, era ormai tutto inutile. La signora Merlin, senatrice padovana, cattolica e socialista, aveva cambiato per sempre le italiche abitudini a vantaggio di uno squallido moralismo di facciata, ben sapendo che molte di quelle duemilaseicento prostitute sarebbero state costrette, per sopravvivere, a esercitare sulle pubbliche strade.
Da allora sono trascorsi cinquantadue anni, una vera era geologica che ha messo nel dimenticatoio persino la memoria di quei luoghi, in grado di attirare proprio tutti, dagli zitelloni per scelta agli uomini dal fisico infelice, dai timidi che non osavano fare la prima mossa, ai mariti annoiati da una lunga convivenza con mogli in declino.
Con l’arrivo della modernità le cose si sono ulteriormente evolute. Oggi vanno di moda i siti porno, con ogni genere di offerta a uomini e donne per una comoda quanto illusoria scappatoia, nel tentativo di fuggire dallo squallore di una vita in affannosa ricerca di un benessere tristemente materiale, sempre più irraggiungibile.
Non nego di subire infinitamente il fascino femminile e le birichinate non me le sono certo risparmiate, ma la sola idea di mancare di rispetto a una donna, trattandola come un oggetto da usare, pagare e gettare, mi dà il voltastomaco.
Nell’appartamentino accanto al mio, abita la signorina Miriam, un’arzilla ottantenne in pensione, animatrice volontaria presso la biblioteca comunale, dopo averci lavorato per trent’anni o poco meno. Tra lei e nonno Gustavo era sempre esistita un’amicizia molto speciale. Com’era piacevole osservarli, mentre rievocavano i loro verdi anni, beatamente seduti sulla panchina dei giardinetti, all’ombra di quel paio di pini, sopravvissuti per miracolo ai numerosi piani urbanistici.
Ricordo che il giorno in cui nonno Gustavo morì, la signorina Miriam, sopraffatta dal dolore, non se la sentì di seguire la bara fino al cimitero, e con la scusa di un caffè, mi chiese di accompagnarla a casa. Seduti nel salottino, si mise a parlare come un fiume in piena della sua gioventù, svelandomi, tra le lacrime, che le case chiuse le aveva frequentate pure lei, ma dall’altra parte dell’universo, e che il nonno, assessore alla cultura, era riuscito a salvarla offrendogli la possibilità di un lavoro in biblioteca.
Intuito il suo bisogno di compagnia, la incoraggiai a continuare, e lei iniziò a raccontare, compiaciuta d’aver trovato qualcun altro che la stesse ad ascoltare, ora che il nonno ci aveva lasciati.
Era una vita peggiore di quella delle suore di clausura, ma senza le messe e le giaculatorie quotidiane, mormorò soffocando un singhiozzo; le giornate trascorrevano cadenzate dal ritmo alienante delle semplici e delle doppie a una media di trenta, quaranta finti orgasmi. Un’esistenza precaria, legata al reggere della bellezza. Bisognava, infatti, poter interpretare un ruolo appetitoso che sapesse stuzzicare le voglie maschili. Rientrare nella schiera dei “bocconcini” o delle languide bambolone, oppure della maschietta, della falsa profuga russa o della bolognese, fertile di sofisticate promesse. Un lavoro estenuante che sfiancava in poche stagioni, e le case di lusso scritturavano solo carne fresca, non usurata dal mestiere.
«Bruciavamo in fretta, e la prospettiva di lauti guadagni era comunque un’illusione.» proseguì Miriam.
«Allargando le gambe, mantenevamo un esercito di parassiti, e lo Stato era forse il peggiore di tutti: tassa sulla licenza ... tassa sugli introiti giornalieri!»
Poco prima che arrivasse la legge Merlin, la tariffa di una marchetta semplice era di quattrocento lire che, per una media di quaranta giornaliere, fruttava un incasso lordo di circa duecentocinquantamila lire a quindicina: una cifra importante, ma già il tenutario ne reclamava la metà. Il corredo era a nostro carico, e bisognava rinfrescarlo di novità: mutandine ricamate, veli, sciarpe di merletto e pagliaccetti. Vanità femminili sulle quali sfogavamo le nostre frustrazioni di recluse: un sollievo fugace quanto dispendioso. Ovviamente c’era da pagare la retta per il cibo, le spese mediche e le piccole necessità di tutti i giorni. Tirate le somme, restavano duecentomila lire, purtroppo ancora da dividere, perché i “pappa” esistevano anche allora: autentiche sanguisughe che nel sistema delle case di tolleranza agivano come reclutatori di ragazze da piazzare nel circuito delle quindicine, trattando gli ingaggi e incassando la percentuale sulle marchette giornaliere.
Per sopravvivere bisognava quindi compensare con la produttività, in altre parole saper farsi scegliere nelle “passate” fra i clienti del salone. Concentrare tutta la propria sensualità in quel «saliamo?» ammaliatore, capace di scollare il “flanellone” dalla panca o dal divanetto, e per meglio riuscire si cercava il sostegno del guardaroba. Funzionava il “ti vedo e non ti vedo”: spacchi, scollature, trasparenze e pizzi traforati. Il nudo integrale non “tirava”; preferibile, per una platea di consumatori cattolici, il chiaroscuro, l’accennato o il tutto coperto tranne il pezzo forte, rappresentato da chiappe matronali o seni da maggiorata. Era di moda, negli ultimi anni, anche il tipo acqua e sapone: dopo le tragedie della guerra, i maschi italiani desideravano un’avventura domestica, che li illudesse di aver conquistato la ragazza della porta accanto.
Per la signorina Miriam, l’adescamento era l’unico momento divertente del mestiere. Su in camera, era solo noia, fatica e sciacquio di bidet.
Ogni tanto si creavano dei fugaci affetti, ma non c’era niente di soave. Per «loro», per la clientela, forse. La regola professionale, infatti, era metterli a proprio agio, quasi fossimo delle giovani mammine o delle amorevoli cugine. Per fortuna era raro imbattersi nel perverso, quello che pretendeva la «bilancia», cioè la presenza di una seconda ragazza. Il grosso dei consumatori erano maschi impacciati che occorreva accompagnare per mano, come se fossero alle prime armi. Non mancavano quelli che Miriam ricordava con il nome di “teneroni”, quelli che prima, durante e anche dopo, parlavano incessantemente dei loro amori mancati, alla ricerca di conforto per un’insopportabile solitudine. E che dire dei “monsignori”, quelli che pagavano non per “fare”, ma per tentare di redimerti, o forse in loro c’era solo la morbosità di voler conoscere la triste verità di una prostituta, con figlio a balia. Naturalmente, tra i clienti fissi e le signorine, a volte si creava una certa familiarità, specie se si trattava di studenti squattrinati, piazzati nel salone a “far flanella”, sordi ai richiami perentori della maitresse:
- Qui non si chiacchiera, si ciula!
Su tutto regnava la fatica alienante di un’impietosa catena di montaggio, e ti ritrovavi a trent’anni che eri già da sbatter via, buona per il giro dei casini da battaglia, a 150 lire la marchetta, quelli dove la maitresse, per incitare i fannulloni a sgombrare, utilizzava l’arma degli spruzzi di flit, un puzzo terribile che timbrava indelebilmente i vestiti dei malcapitati, con ovvie conseguenze una volta ritornati nelle loro case.
Ripensando a quel periodo, oggi ho acceso il computer e vagando a caso per la rete ho scoperto sull’argomento una storiella davvero spiritosa, vera o falsa non saprei. Un testimone di allora racconta che qui in provincia di Varese, negli anni in cui i bordelli funzionavano a pieno ritmo, il tram da Luino raddoppiava le corse domenicali, mentre al trenino della Valmorea aggiungevano regolarmente due carrozze. Molti mariti, dovendo motivare alle mogli sospettose quei frequenti viaggi festivi, si erano inventati la scusa di una gara di bocce nel capoluogo. Partivano dunque con la loro pesante valigetta, ma giunti a destinazione, non volendo trasportare fino al casino quell’inservibile fardello, se ne liberavano abbandonandolo nel deposito bagagli della stazione ferroviaria. Al ritorno, forse per la fretta o piuttosto per via di un comprensibile rilassamento, quelle bocce finivano spesso dimenticate, finché, alla fine del ’58, preso atto che l’entrata in vigore della Legge Merlin aveva ridotto drasticamente quel gran viavai di uomini, le ferrovie scrissero alla bocciofila di viale Belforte affinché venissero a prelevare la marea di bocce che intasavano i magazzini.
Stuzzicato dalla curiosità di conoscere la sua reazione, ho ripetuto la storiella alla signorina Miriam, e lei, con un’arguzia degna di un filosofo greco, ha commentato:
«Mio caro Alberto, sai cosa ti dico? Le palle le avranno anche ritirate, ma i cervelli no, quelli sono ancora là, sepolti in quel deposito ammuffito!».
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"Dall’imbarazzo, non sono riuscito a pronunciare nemmeno una parola, e sono scivolato via, quasi correndo." Nell' ultimo passaggio si crea quasi un ossimoro e non riesco a figurarmi la scena. Il protagonista è scappato, ok ma come? A passo di corsa, quasi, o più lentamente, come per non essere visto?
E anche la battuta finale l'ho riletta più volte, ma mi suona sempre con un qualcosa che non torna.
"− Caro Alberto.(Qui avrei messo una virgola) Le palle le avranno anche ritirate,(qui invece non avrei messo la virgola) ma i cervelli no, quelli sono ancora là, sepolti in quel deposito ammuffito!"
Comunque in generale, ho letto il racconto più volte, per quanto il racconto possa essere interessante sotto il profilo storico, trattandosi per lo più di una rievocazione di un abitudine del passato, solo lievemente paragonata, (e forse anche paragonabile) a quella attuale e non mi ha suscitato granché. Anche le immagini, ho faticato a "visualizzarle" e ci sono riuscita solo parzialmente e comunque senza davvero "vedere" i luoghi o i personaggi descritti, ammetto di aver dovuto richiamare alla mente altri testi che contenevano simili rievocazioni storiche per poter "entrare" meglio nello spirito del racconto. Comunque un bel racconto che si lascia leggere, voto 3.
- Massimo Baglione
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Re: Quell’ultimo giro di valzer
Se invece state solo rispondendo, non serve specificare.
Ricordatevi anche che il testo del commento deve essere lungo almeno 200 battute.
Vi rimando alle istruzioni delle Gare letterarie.
- Alberto Marcolli
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Re: Commento
Forse potresti utilizzare il termine "tumulto" invece di "fermento", in quanto mi sembra che quest'ultimo rimanga un po' nascosto nella frase. Tumulto, per me, comunica meglio l'idea di confusione o eccesso.
Solitamente l’editor non suggerisce il cambio di un termine, ritenendolo una scelta di stile da parte dell’autore, a meno di voler eseguire un editing profondo, che io non ho mai fatto, non essendo un vero professionista, con laurea specifica e tutto il resto. Ma visto che tu lo hai fatto, ti dirò: accetto la proposta.
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La parte del periodo "che infangano per sempre le loro vite" mi sembra troppo pessimistica, come se non ci fosse speranza, né possibilità di redenzione. Come bestie marchiate a fuoco da un falso moralismo. Forse sarebbe meglio usare "che infangano la loro esistenza".
Idem c.s
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“Ho sofferto nel considerare come la società in cui vivo preferisca fingere di non vedere invece di impegnarsi attivamente per combattere questo strazio.”
Trovo questa frase retorica, come se fosse stata scritta solo per dire: "a me questa cosa non piace". Il fenomeno della prostituzione è concatenato con altri problemi come la droga, l'immigrazione illegale e la schiavitù moderna. Si tratta di un sistema molto più complesso, governato da diverse organizzazioni criminali. Inoltre, si parla di "società" ma essa è formata da singole persone che non hanno affatto potere. Sarebbe più corretto dire: "Ho sofferto nel considerare come la società e lo Stato nella quale vivo preferiscano fingere di non vedere invece di impegnarsi attivamente per combattere questo strazio", poiché lo Stato è la massima rappresentanza della società. La verità è che il commercio del sesso porta soldi, che alimentano l'economia sia legale che illegale, compreso lo Stato attraverso tasse e imposte, anche se non direttamente, ovviamente.
Concordo con la tua analisi. Per evitare di cadere in “infodump”, tolgo tutta la frase.
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In realtà funziona pure oggi così. L’attrazione è in quel che non si vede ma si immagina. Io avrei scritto “Era di regola il “ti vedo e non ti vedo”: spacchi, scollature, trasparenze e pizzi traforati…”
Eseguo le modifiche di punteggiatura, ma non cambio la frase. Vorrei si capisse che l’io narrante è un vecchietto, certamente non aggiornato sulla situazione attuale.
- Laura Traverso
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E dire che non ti mancava certo (è lì nel testo!) materiale per farne un capolavoro!
Sembri impacciato, e credo sia questo che ha fatto incespicare la tua penna, abitualmente assai più incisiva.
È la morale? Cominci in effetti col disagio nel vedere le ragazze per strada, ed è un disagio che ti tiri dietro per almeno mezzo racconto, fino a quando la vicina "si confessa".
Non emetti nessun giudizio, né ne cerchi uno, né affondi nei sentimenti di quelle vite. Sarà l'alienazione di quel mestiere, non lo so, mi resta l'impressione che ti sia sentito in difficoltà ad affrontare il tema. Nemmeno qualche guizzo di detti antichi serve ad animare una narrazione che resta fredda, estranea, i cui unici momenti di introspezione sono mediati dal nonno in un'età alla quale non potevi capirlo, e quelli della vicina che ascolti quasi per cortesia.
A migliori note la prossima volta!
Scusa se paio impietoso, ma ti leggo sempre con trepidazione...
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perbacco, è un racconto che si può definire storico, visto che riporta la situazione e i comportamenti di oltre sessanta anni fa, però lo trovo privo di anima, manca qualcosa.
di contro, è scritto benissimo, quasi senza refusi.
nel complesso direi che si lascia leggere.
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- Alberto Marcolli
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Re: Commento
Il racconto è stato scritto almeno venti anni fa e ne ho numerosissime versioni.
Ho scelto la più ridotta di tutte, ma evidentemente troppo stringata. Ho allora cambiato il testo che ora è di 14.000 caratteri. Dovrebbe essere più completo, visto che ho avuto più di un commento in cui si lamentava qualcosa di mancante. Non è detto che i principi qui declamati siano tutti condivisibili, ma tant'è, io la penso così.
- Alberto Marcolli
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Re: Commento
Ciao,
Testo scritto da almeno vent'anni, e rispolverato per la gara, scegliendo una versione ridotta, per non annoiare troppo i lettori.
Vista la tua curiosità, e quelle di altri, ho provveduto a caricare un'altra versione, sempre antica, ma decisamente più completa. Se ti va, rileggi il racconto/saggio, e vi troverai la risposta.
256K
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A cura di Massimo Baglione e Massimo Fabrizi
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