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Perseus
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Re: Perseus
Sono contento che ci sei anche tu in questa gara.
Ti ho dato pure 5 ma non funziona! Che sfortuna!
Leggiucchiato in realtà. Molto più completo rispetto all'altro racconto dell'altra "gara".
Ciao, e buona… buona gara!
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Re: Perseus
anche a me fa piacere rileggerti.
In realtà, i due racconti si completano (quasi, mancano alcuni dettagli che non sapevo come infilare), ma l'avevo anticipato. Mi fa piacere se, ampliando la prospettiva, il quadro si completa.
Un saluto e a presto
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Re: Perseus
Ho aggiunto il sondaggio per i voti.
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Re: Perseus
grazie mille per il gradimento, e mi fa piacere se ho chiuso alcuni punti che la prima parte del racconto non aveva potuto affrontare.
In realtà ci sarebbero un altro paio di elementi da mettere al loro posto (Pegasus e Chrisaor, ad esempio), ma chissà che col tempo...
A presto!
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Re: Perseus
Perché "solo tuoi"? Ho del mito un'idea più universale. Però magari poi ci fai sapere quali sono i tuoi concetti-bagaglio: il confronto è sempre confortante.
Allo stesso tempo, non credo di aver scritto nulla di "scientifico" (ovvero, da prendere sul serio): il mio è piuttosto un tentativo di far concordare (a spanne) i miti che ci sono stati tramandati con una possibile sequenza di eventi storici reali, nell'ipotesi che essi raccolgano la memoria di quegli eventi. In altre parole: ammettiamo che essi conservino un fondo di verità, qual è questa verità? E qual è stata la sequenza, quali le ragioni che hanno portato dal fatto al mito?
Quindi, sebbene è vero che la narrazione in alcuni punti è "densa" (come osserva anche Andr60), evito di spendermi nello studio approfondito di ciascun dettaglio perché non ne ho né i titoli, né le capacità, e infine ammazzerei il racconto (la miglior scusa per non faticare!)
A presto!
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… una lettura veramente impegnativa… tante cose da memorizzare… specie per uno poco ferrato in mitologia come sono io.
Certo che Aithia, per essere una bambina, doveva avere un cervelletto appesantito da quanto le veniva versato dentro… direi una specie di quel che oggi potremmo dire catechismo… anzi, ancor meglio, indottrinamento.
Comunque sono riuscito ad arrivare alla fine.
Jacopo
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Re: Perseus
in effetti, finché si toccano le corde di chi apprezza certi temi, è facile. Il difficile è quando il lettore apprezza piuttosto altri generi, quindi il tuo arrivare alla fine lo prendo come un ottimo risultato!
Indottrinamento è una buona parola, nel senso di ricevere una dottrina, e non in quello di subire il lavaggio del cervello, e le religioni monoteiste sono sempre state più prossime alla seconda che alla prima accezione, anche perché quando si comincia con "non avrai altro Dio all'infuori di me", il margine per elaborare un dialogo è abbastanza risicato.
Ma i bambini... Quelli apprendono tutto! Il problema siamo noi ciucci vecchi, che vediamo le cose accadere sempre allo stesso modo e non impariamo mai! Sembra che mi riferisco a qualcosa di particolare? Direi...
Impegnativa... Spero che queste cose si possano leggere su più piani. A me premeva sollevare Aithia dai suoi dubbi. È vero che col tempo si arriva a giustificare qualunque nefandezza con la religione, ma ci fu un tempo che il figlio di un falegname fu immolato su una croce. Non fu certo l'unico, perciò deve essere stato una persona eccezionale, per ricordarcelo oggi. Noi conosciamo una storia, quella che ci è arrivata, ma chissà...
A presto!
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posso fare un'osservazione poco opportuna? E perdonami di questo. Perché si intende molto bene dal tuo racconto che, più che una "riproposizione" del mito, esiste, invece, una sorta di "rielaborazione", che è una cosa diversa, in chiave storica (o ipoteticamente storica) del mito stesso; privandolo di quell'aspetto fantastico/favolistico che accompagna ogni mitologia. Il tuo lavoro come autore è apprezzabilissimo. Però, se spogli il mito e lo trasformi in qualcosa di possibilmente storico (o comunque appartenente a una storia presunta), il mito stesso non rischia di perdere la sua originalità, valore simbolico, fascino e genesi (le/a ragioni/funzione del suo esistere per come è stato creato e per come lo conosciamo noi adesso) per poi diventare un'altra cosa, molto più razionale? Perché il tuo intento/proposito non è propriamente rielaborare il mito per "com'è" (guardandolo da un'ottica diversa), ma (scusa se mi ripeto) "riproporlo in chiave pseudo-storica e razionale", che però è un'altra cosa rispetto alle vere caratteristiche del mito reale, per come ci è stato tramandato, intendo, oppure ne rappresenta solo una parte.
Non giudicarmi "puntiglioso e pedante", ma un po' di ragione ce l'ho, no?
Ti porto un esempio: prendo un Vangelo (quello di Marco) e lo riscrivo più bello, riempiendo i vuoti narrativi che ci stanno, aggiungendo personaggi e altri fatti e dettagli che a me piacciono e che anche ad altri possano piacere; e alla fine mi esce pure un bel lavoro (magari più bello nella forma e nei contenuti del testo originario). Sì, sarà un bel lavoro il mio, ma non sarà mai l'originale, e, "per quanto apprezzabile, anche per le fonti a cui io ho attinto", resterà sempre una mia libera interpretazione.
Che Iddio mi perdoni per l'esempio un po' profano, essendo io credente; era solo per far capire cosa intendevo. Molti, quasi tutti oggi, dicono "io sono ateo" per far intendere che loro sono persone intelligenti e razionali. Dico io a loro: non c'entra nulla l'essere intelligenti e razionali con la Fede. Credere che esista qualcosa di assoluto e trascendentale, prima della vita e dopo la morte, è una verità che non deve essere dimostrata o avvalorata dalla ragione: "Se ci credi, è", semplificando parecchio quello che dice Averroè (o Averrois).
Marino, forse ti aspettavi più un commento tipo così?:
"Ah, sì! Bel racconto! Mi è piaciuto tantissimo! Poi la mitologia è roba molto forte! Cinebrivido! Ma lo sai che sei molto ganzo e figo a scrivere! Portento! Bravo! Bravo! Bravo! Bravo!"
P.S. Sei stato, invece, enormemente bravo a inventare un personaggio come Aithia (palindromo? Porta fortuna!) che fa da mediatrice al Logos (la nonna) del mito; in cui il lettore non può fare altro che immedesimarsi. Il testo è in certi tratti un po' "lento" nella lettura, e per i rimandi ad altri personaggi e vicende, però questa è una caratteristica di tutti i testi dialogici e non si può fare nulla per cambiarla; e per i rimandi: idem.
Tante belle cose, caro Marino Maiorino,
Antonio
Voto 5 (per me il voto conta poco o quasi nulla, ma se ci tieni…)
- Marino Maiorino
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Re: Perseus
non trovo nulla da perdonarti, al contrario!
Il mio proposito è (in parte) esattamente quello che individui nelle prime righe del tuo commento: ricercare la storia dietro il mito, risolvere le apparenti incongruenze della narrazione, cercare di capire come e perché sono state introdotte, qual è il loro valore nella narrazione per chi il mito l'ha elaborato, rielaborato e infine codificato.
Ciò non mi impedisce, però, di partire da una base fideistica: Athena c'era non tanto sottilmente nella prima parte del racconto, mentre in questa seconda parte è usata solo come pretesto. Nel caso del mito di Medusa ho trovato (facendo ricerche per quanto mi è possibile e con la mia limitata sensibilità) che il personaggio, la sua iconografia, la sua storia, sono sparsi su un territorio enormemente più vasto di quello della civiltà greca (sia pure con notevoli varianti locali). Ho trovato anche che è uno dei miti più antichi, che sorge dalle nebbie del Medio Evo ellenico praticamente già codificato.
Se vuoi, quello che propongo è una ricostruzione "scientifica" dei fatti che diedero origine al mito (il ricordo della civiltà degli Antichi Europei sommersi dai Kurgan). Siccome non fu un'invasione in senso moderno, ci furono ovviamente prestiti culturali da entrambe le parti, e il processo durò diverso tempo, con eventi cruenti e altri meno.
L'elemento religioso è estremamente importante, e non cerco di razionalizzarlo del tutto, perché fa parte dell'identità di un popolo, dei suoi riti, delle sue credenze, e giustifica determinate usanze della sua società (credo sia palese il contrasto del contratto matrimoniale tra invasori e invasi nelle parole della nonna: sappiamo bene che gli invasori erano fortemente patriarcali).
Il tutto è stato smosso dalla mia meraviglia per come determinate figure divine e mitiche della civiltà greca (patriarcale) abbiano connotati fortemente matriarcali (Athena, Medusa), superando quello che fu lo shock del XIII sec. a.C.
Ma che tutto si giochi sul filo della propaganda culturale, te lo dimostra un'osservazione tanto lampante perché lasciata lì dalla storia (sai, quegli elementi narrativi ai quali non si attribuisce importanza, e che quindi gli invasori non si curarono di depurare. La vera storia si recupera spesso da queste sciocchezze, invece che dal succo di un mito): Medusa era figlia di Phorkys, dio del mare PRIMA di Poseidone. Alcuni specialisti ritengono che la generazione di Dei anteriore agli olimpici raccoglie i ricordi del pantheon precedente alle invasioni dei Dori. Quindi il mito classico già dice: "Medusa è un personaggio che appartiene alla mitologia anteriore alla nostra". Eppure, nel mito che ci è giunto, ella è sacerdotessa di Athena, a sua volta nata dalla testa di Zeus! Come si concilia quest'incongruenza temporale?
Io la risolvo pensando che Athena, dea saggia e guerriera, protettrice delle città (gli invasori erano nomadi, non avevano città), preesisteva agli Olimpici, e che la sua nascita dal cranio di Zeus sia solo un'attribuzione posteriore, dovuta alla volontà degli invasori di assorbire nel proprio pantheon una figura che 1) non avevano e 2) il cui culto continuava nonostante il contrasto culturale!
Ora, capisco che più affondo in queste spiegazioni, più vado nella direzione che hai criticato (troppa "razionalità"), ma qui viene il plot-twist: ho sempre creduto che l'uomo si avvicina alla divinità quanto più è primitivo, e non per creduloneria o ignoranza (questa è solo una parte della storia), ma per sentire, per spirito. Che, ho scoperto, è molto diverso dall'abbandonarsi alla volontà di Dio come facciamo i cristiani ma, al contrario, è una religione molto attiva. Un detto alessandrino a proposito di Athena recita: "Syn Athina kai, cheira kinei" ("con l'aiuto della Dea, muovi le mani" parallelo al nostrano, "aiutati, che Dio t'aiuta"). Il senso è che se vuoi vedere un miracolo, devi cominciare a operarlo tu, altro che metterti a pregare!
Quindi, alla fine, sto cercando di eliminare tutte le superfetazioni, le alterazioni culturali, le ritualità inutili, per cercare di raggiungere il rapporto "naturale" tra l'uomo e la divinità.
Mi puoi certo dire: mito a mito, te ne resta, di strada, da fare! Beh, ma a me piace camminare, fa bene alla circolazione, e nel frattempo ammiro il paesaggio. In fondo, il bello del viaggio non è quasi mai la meta, ma il viaggio in sé. La bella meta è un'attrazione turistica, e io rifuggo dalla calca.
Per il voto... No, non ci tengo, ma mi è utile per capire se so comunicare compiutamente ciò che voglio esprimere.
A presto!
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Re: Perseus
"Quindi, il tuo obiettivo è cercare di rintracciare l'origine storica del mito per poi elaborarlo razionalmente e scientificamente, cercando di colmare illogicità e lacune, e riproporlo attraverso un testo leggero, come un racconto, più agevole da leggere rispetto a un saggio barboso."
Una terza via possibile e difficile, rispetto a quelle indicate da me prima.
Grazie per l'esaustiva risposta, Marino
Avevo dimenticato di darti il voto, scusa.
A rileggerci…
- Marino Maiorino
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Re: Perseus
Giochi di parole a parte, hai riassunto egregiamente.
Il fatto è che un racconto non ha pretese di avere rigore scientifico, ma comunica scenari con un'immediatezza disarmante. La tentazione è troppo forte!
Ancora grazie per la tua attenzione,
~
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Leggendo i commenti mi sembra di capire che ci siano altri racconti con la stessa ambientazione e che quindi quello che racconti qui completa e integra altre storie, io purtroppo sono l'ultimo arrivato e non lo è ho letto, percui nel mio giudizio oggi mi baso solo su questo ultimo.
Bella l'idea di reinterpretare la leggende, m piace molto come idea. Gestisci bene l'enorme "spiegone" inserendolo in una graziosa e piacevole narrazione di una nonna verso la nipotina.
Se posso dire il tutto mi ricorda come atmosfera niente di meno che la "figlia di Omero" di Graves, che gioca su un concetto molto simile ambientandolo anche lui nella grecia arcaica.
La mia principale perplessità è il linguaggio che trovo un po' troppo moderno e "spicciolo", racci bene il differente modi di parlare infantile della bambine e la nonna, ma fai perdere un po' dello spirito fiabesco di altri tempi della narrazione. Il linguaggio non mi porta nella grande sala di un palazzo di un re della grecia arcaica. Seduto, vestito con un tunica di lana, ai piedi della mia venerabile nonna.
- Marino Maiorino
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Re: Perseus
Il precedente brano (Arma di Difesa) ha partecipato nella gara di primavera, ma lo trovi anche sul mio profilo autore.
Mi piace Graves: ha capito che alcune cose poteva dirle solo in forma poetica, visto che scientificamente non trovava pezze d'appoggio per le sue sensazioni (comunque una sensazione di Graves è enormemente più pertinente del "paper" di altri accademici).
Sul linguaggio, hai ragione, e te ne ringrazio addirittura: ho voluto perdere volutamente il tono ampolloso di una corte.
1) Volevo comunicare l'idea al pubblico più ampio possibile, e il linguaggio forbito di una corte, con uno "spiegone" poi, diventa presto pesante e intollerabile. "Narrami, o Diva, del Pelide Achille l'ira funesta che infiniti addusse lutti agli Achei!": per un lettore moderno, le prime cinque parole richiedono 2 note a pie' di pagina, che salgono a tre entro la fine dell'incipit. Il mio non è un poema, ma una nonna che racconta alla nipotina;
2) il rapporto nonna-nipote. La scelta di Aithia come destinataria delle nozioni della nonna è ancora una volta la scelta di semplificare lo spiegone e il suo linguaggio e, una volta fatta questa scelta, si tratta di caratterizzare i personaggi. Qui non siamo a Buckingham Palace, ma in una fortezza di mura megalitiche tenute insieme senza malta, al termine del Medio Evo ellenico, tra gente che, se ha un titolo, se lo è guadagnato col sangue sui campi di battaglia, e non ereditandolo insieme a una vasta collezione di cappellini colorati. Non c'è neanche molto di fiabesco perché quello che la nonna racconta era reale, l'ha vissuto. Di fatto, tutto il racconto tende a chiarire che quanto si crede "favola" o "mito" è la tradizione che resta di eventi realmente accaduti.
Quindi, niente grandi sale ma ambienti stretti, rudi, dedicati alla difesa, perché il nemico è là fuori. D'altronde, anche le sale frequentate da Ulisse non sono sempre quelle dei Feaci; la stessa regina Penelope è dedita a tessere le imprese del marito lontano con le proprie manine; innumerevoli eroi greci sono stati porcari, pastori, delinquenti, assassini, stupratori e chi più ne ha. Dove sono queste "grandi sale"? La cosiddetta "sala del trono" a Knossos (400 anni prima del mio racconto) è uno stanzino stretto e basso che riceve luce da una sorta di piccolo cortile attraverso un corto colonnato. Ma che differenza tra l'evoluta Knossos e la severa Micene!
Ma resta comunque il fattore gradimento, puramente personale, e lì non posso dire nulla. Per questo ti ringrazio per l'attenzione e per il commento.
A presto!
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Re: Perseus
Certo hai perfettamente ragione. "grande" salone era inteso in senso molto esaltatorio. Come il bardo avrebbe descritto la sala del suo Potente Sovrano che comandave "vaste" schiere, con "molte" navi, e possedeva "innumerevoli" greggi.
L'ambientazione che usi e assolutamente una delle mie preferite.
PS sto rivendendo un romanzo storico che scrissi tempo fa, di ambientazione romana molto più tarda, e ovviamente la seppur nobile e ricca matrona patrizia, madre del protagonista, si fa vanto di passare il tempo a filare con le sue ancelle.
Vado cercarmi gli altri tuoi racconti
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Re: Perseus
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E te ne sei accorto anche tu quando la nonna dice ma ora basta con lo spiegone. Francamente questo passaggio lo abolirei. Excusatio non petita, accusatio manifesta. Nonostante ciò sei riuscito a portarmi nel tuo mondo e a farmi comprendere come le radici del Mito siano più profonde e antiche di quanto crediamo. E forse questo è il punto. Il Mito non è una favoletta che la giagia deve dispensare alla nipote, seppure una nipote metaforica come Aithia. Soprattutto perché quando fai entrare in scena Andromaca, con l'altra parte del Mito, seguire il ragionamento della nonna non è faccenda da poco, né così immediata la comparazione tra quel che c'è e quel che invece tu proponi. Ecco, io lì mi sarei soffermato con qualche spiegazione in più, avrei ampliato il discorso per renderlo più comprensibile e fruibile. Sono un curiosone. Ma qualche spiegazione in più, a quel punto, dentro il racconto avrebbe appesantito a tal punto la narrazione da renderla infruibile. Il saggio dentro al romanzo è un'operazione meravigliosa, ma terribilmente complessa. E quindi un dialogo a tre? Non sottovaluterei la figura del padre della bambina. Dopo tutto è lui l'Elleno. O un racconto nel racconto? O un sogno nel racconto? Il sogno di Medusa, ad esempio, dove riprendere la sua relazione con Perseo e quella di Andromaca con entrambi.
Torno sui nomi. Sull'inesattezza di Jaime avevi ragione tu. L'ho cambiato in italiano per coerenza. Qui nei nomi alterni traduzioni di nomi greci in italiano come Euridice, Aganippe, Acrisio, Andromaca, a nomi riportati dal greco direttamente, come Danae, Dyktis e altri che non hanno un vero e proprio corrispettivo in italiano ad altri ancora che però un corrispettivo in italiano lo posseggono: Perseus è Perseo, Demeter è Demetra, e così via.
La sensazione è di straniamento, di non sapere bene dove ci troviamo e quale sia il metodo adottato.
C'è poi, credo, una imprecisione. Athene, scrivi, la città, in greco moderno è Athina, mentre in dialetto attico era Athinai.
La dea era però Athinà.
E poi perché il locativo iona e non ionio o ionia? In italiano mi pare più corretto.
Gran lavoro, Marino. Continua.
- Marino Maiorino
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Re: Perseus
preziosissimo come sempre, e mai a lesinare in dettagli. Grazie!
Sì, il punto che voglio portare alla luce è che il mito è più antico di quanto crediamo. Tolkien (lo so, cito troppo spesso e solo lui) aveva un'immagine bellissima (secondo il mio gusto) del mito: il calderone di una zuppa. Nella zuppa c'è a bollire di tutto, cose antichissime e cose più moderne, e la ricetta cambia col tempo. E quando affondi il mestolo, non puoi mai sapere cosa ci trovi.
Il mito di Andromeda... Come hai notato anche tu, ho corso sul filo del far scoppiare il racconto a causa della sua complessità (quello di Perseo e la Medusa mi pare uno dei più complessi, e ne sono testimoni le costellazioni nel cielo, che contano almeno sei asterismi [Andromeda, Perseo, Cefeo Cassiopea, Pegaso, Ceto] su 88 solo per questo mito...)
Ora non so se riempirò i buchi di questo racconto, ma la tentazione c'è, e probabilmente seguirà vie diverse: nuovi racconti, quando sarà possibile farne racconti indipendenti, o integrazioni dei presenti, quando si tratterà di rifiniture.
Per ultimo, la mia gioia: le tue osservazioni sui nomi. Hai ragione e darò una sistemata, seguendo le tue avvertenze.
Un saluto!
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Re: Perseus
Scusa se mi sono intromesso, ma se scrivi diversi racconti sullo stesso "motivo", è importante trovare un modo per unirli. La soluzione più semplice sarebbe antologizzarli (cronologicamente), ma rischierebbe poi di sembrare troppo simile a un libro di scuola.
Ciao, Marino
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Re: Perseus
tu e Namio mi state dando un notevole impulso, e ve ne ringrazio.
Sembra che entrambi (e me ne sorprendo) abbiate accettato il fatto che questi sono una storia nella storia, un livello narrativo di troppo che poche volte è ben riuscito. Prendo perciò come un ottimo segno il fatto che mi stiate invitando a procedere.
Invito che accetto con la dovuta prudenza a cercare di mantenere il livello fin qui stabilito. Ci vorrà tempo.
Un saluto!
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Re: Perseus
Saluti
Vittorio
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Re: Perseus
So che a prima vista questi miei racconti (di fatto, gran parte di quello che scrivo) possono sembrare, come dici tu, il tentativo di spiegare il senso della mitologia, ovvero una ricerca del fatto storico dietro il mito.
Ma devo confessare che l'obiettivo ultimo è ancora più in là. Chiedo scusa a Namio, a Antonio, ai lettori più attenti, se non ho chiarito in precedenza questo punto che invece è per me fondamentale: sono alla ricerca del divino nell'umano, e credo che le "religioni" abbiano nascosto questo elemento piuttosto che portare l'uomo più vicino alla divinità.
La ricerca storica è il percorso per tornare a un tempo virtualmente senza religioni, quando il divino poteva esprimersi liberamente, farsi "esperienzare" dall'umanità.
Il che ha a che vedere con molto di quello che crediamo di "vivere". Per dirne una: noi occidentali abbiamo un concetto di "amore" che, nel bene E nel male, è indissolubilmente legato alla scolastica medievale (e al contratto matrimoniale "more uxorio" del diritto romano).
Ma Amore, senza sovrastrutture sociali di sorta, chi è davvero? E come Amore, molti altri.
La ricerca storica, quindi, mira a raggiungere quei momenti in cui un semplice processo logico NON può spiegare un bel niente. Lì, spero, la divinità dovrebbe uscire allo scoperto.
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Re: Perseus
La ricerca storica e antropologica, temo, che non potrà mostrarti quanto cerchi. O mi sfugge qualcosa?
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Re: Perseus
eheh, uno dovrebbe sempre avere una persona della tua cultura con la quale interloquire, perché arrivi al nodo delle cose in un zac!
Ma il tuo è un punto di vista dis-incantato (i tuoi occhi quando non scrivi non sono più sensibili alla magia), e quindi la tua conclusione è pessimista: "Se con la ricerca storica metti a nudo il Mito, lo privi della sua presenza soprannaturale per restituirlo all'uomo e alle sue inutili e sempre uguali beghe"
Io spero di arrivare alla conclusione opposta: se con la ricerca ("storica" è un parolone, "antropologica" pure, e "filologica" sarebbe anche peggio) riuscirò a mettere a nudo il Mito, è perché "assisterò" al Mito nell'attimo del suo accadimento, nello splendore della sua soprannaturalità. È vero che potrei non scoprire alcunché di particolare (dal punto di vista divino), ma questo si può dire per tutta la ricerca di ogni tipo (e il fatto di essere un astrofisico corrobora questa mia opinione).
Ciò che voglio dire è che ogni tipo di ricerca, al giorno d'oggi, funziona come una "sandbox", una di quelle piscine di sabbia nei parchi infantili: i bambini possono sguazzarci quanto vogliono, fare castelli di sabbia, ridere, piangere, giocare con le loro palette e palline... nella sandbox. Non ne escono! Se ci provano, prontamente qualche adulto, disturbato dalla sabbia per tutto il parco infantile, ce li riporta.
L'esempio che ti posso fare con la fisica è quanto mi hanno insegnato nella prima lezione del primo anno all'università a proposito di cos'è la fisica (la nostra futura sandbox, allora): "noi non sappiamo cos'è il tempo e non ce lo chiediamo. Non ci poniamo la domanda. La fisica si preoccupa di misurare il tempo, non di dire cos'è" (di fatto, almeno a Napoli, il corso di laurea in fisica era fondamentalente un'estensione della teoria della misura).
Quest'atteggiamento è certamente vero, a diversi livelli, in qualunque altra disciplina praticata a un livello accademico e professionale, e il perché è ovvio: quella disciplina è il risultato del lavoro di generazioni, funziona bene così com'è, e la probabilità che un pischello arrivi a mettere in crisi l'intero apparato abbastanza remota. Crisi e rivoluzioni copernicane sono ammesse, per carità, ma sempre in seno ai metodi già stabiliti. È stato così per la relatività e per la meccanica quantistica, ed è meno così proprio in quelle discipline dove è più facile manipolare i fatti per l'interesse di qualcuno (medicina, diritto, economia), anche se i risultati sono spesso più catastrofici che positivi, perché limiti surrettizi sono disegnati appositamente per condurre al vantaggio di pochi a danno di molti.
Nondimeno, il mio non è un intento di uscire dalla sandbox tout-court, quanto piuttosto di raggiungerne il bordo, il limite, sentire che il limite esiste! Vedere che c'è qualcosa che il metodo storico, antropologico, filologico, non sono in grado di spiegare. Non un'ennesima bega inutile e uguale, ma qualcosa che solo il divino può spiegare. Bada: non voglio dimostrare il divino tramite il Mito, ma il Mito tramite il divino, ma un divino che sia fattuale, non un divino di propaganda.
Fin dove potrò spingermi? Dove finisce ciò che possiamo ascrivere a questa disciplina che sto esplorando? E, ammesso che riesca a raggiungerne il limite, potrò definirlo, averne un'idea? Penso che, già solo così, si configura come un viaggio emozionante, non credi?
Sulle probabilità di riuscita, non mi preoccupa la vanità dello sforzo: il mondo ha visto pazzi assai più furiosi di me, altri ne vedrà. Sono in ottima compagnia, e qualcuno è persino passato alla storia!
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Re: Perseus
Hai scritto:
"Non voglio dimostrare il divino tramite il Mito, ma il Mito tramite il divino, ma un divino che sia fattuale, non un divino di propaganda."
Espandendo questo concetto, potremmo dire:
"Non intendo utilizzare il mito come prova dell'esistenza di Dio, ma voglio impiegare Dio come chiave interpretativa per comprendere il mito. Questo Dio non è un'idea astratta o un concetto propagandistico, ma una realtà concreta che si manifesta nel mondo."
In sostanza: attraverso l'analisi del mito, cerco di avvicinarmi a un'immagine di Dio, o di divinità, che sia profondamente "immanente", anche o soprattutto da ricercare nella storia.
È un'impresa complessa, che richiede un approccio quasi sciamanico piuttosto che puramente letterario.
Si dice che chi cerca trova. Forse hai trovato già qualcosina di Dio? O altro che gli assomiglia? O magari qualcos'altro ancora?
Io non posso saperlo. Parli anche di "magia", o meglio, di vedere la "magia attraverso gli occhi", e potrebbe essere proprio in questa "magia" (da te vista, provata e sentita) che risiede ciò che hai cercato, stai cercando e continuerai a cercare.
Buona domenica, Marino
Antonio
P.S. Spiego meglio: "provata e sentita": di cui hai "prova" perché l'hai "sentita". Io uso Dio per divinità.
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Re: Perseus
e su Dio usato per divinità ci siamo. Ma dal momento che un capo (sul lavoro) musulmano ateo (e mica crediamo di avere l'esclusiva!?) mi insegnò che nell'Islam Dio non può essere localizzato nel tempo e nello spazio, credo che non possa essere nemmeno "personificato" (nel senso di attribuirgli una "identità"). Quindi "divinità" è un concetto piuttosto che una persona. Dirai "e che c'entra un musulmano con noi"? Beh, ma per me TUTTO ciò che è stato detto da ciascuna forma di divinità è verità (Dio = Verità), quindi se Dio è unico ("non avrai altro Dio..."), è vero anche tutto quello che qualunque altra divinità ha trasmesso. Il problema è che gli esseri umani si fissano sulle differenze piuttosto che sulle similitudini per un loro inveterato complesso di inferiorità, e da qui...
Fatta questa premessa (non realmente dovuta. È piuttosto un "reminder" per me), io non voglio usare Dio come chiave interpretativa una beata mazza! Io voglio trovarlo! Voglio trovarne le tracce nel nostro limitato universo quadridimensionale (nello spazio E nel tempo) come evento reale e fattuale, non come interpretazione di un bel niente!
L'approccio sciamanico, a questo punto, sì, è d'obbligo.
Se ho trovato qualcosa... Se devo giudicare dal punto di vista egoistico di come mi vanno le cose, dovrei votarmi or ora a quell'altro, il che mi porta automaticamente a considerare che se c'è quell'altro... Ma scherzi a parte, i "sensi" mi dicono che è tutt'intorno a noi, sì, immanente, ma in un modo, con una pervasività che non so quanto sia mai stata percepita in Occidente (siamo un po' "materialisti" e materiali, dobbiamo ammetterlo).
In realtà, è immanente in un modo Indù, e qualcosa giunge anche nelle nostre credenze: nel mio modo di sentire, il Dio che per gli Indù alberga in noi, non sarebbe altro che il nostro angelo custode, e i teologi potranno suicidarsi a caterve (lo spero, insieme ai grammatici, codificatori di fenomeni locali o momentanei), ma io sono con Cristo quando diceva che avrebbe riedificato il proprio tempio in tre giorni: il tempio al Dio che era in lui, il suo corpo. Cristo figlio di Dio come ciascuno di noi.
Di tutto questo, prove non ho (non ne scriverei e potrei forse considerare finito il mio servizio quaggiù). Ho perso anni fa la capacità di vedere la magia anch'io, e ultimamente sono stato particolarmente tribolato, ma ho esperito cose (e se lo dico, da fisico di laboratorio, credo di potermi fidare del mio giudizio) che mi fanno credere (il che non è bello: la fine di Tommaso). Quindi il mio non era un "rimprovero" a Namio, al contrario era immedesimazione.
Potrà perciò sembrare strano che io voglia arrivare solo a trovare i limiti dei nostri Miti, ma penso che riconoscere i nostri limiti sia esattamente il punto, il senso di quello che siamo su questa Terra.
Andare oltre? La cacciata da Eden fu dovuta a un peccato di superbia (dal momento in cui fummo dotati di libero arbitrio la disubbidienza è stata derubricata), spero di non ripetere l'errore.
Ultimo: "magia". Opera della divinità non riconosciuta come tale, divinità minore. Ce n'è a pacchi. Basta saperla riconoscere. Tu, ad esempio, Antonio, hai una facoltà "magica" di toccare certe corde che mi fa tremare. Quello che hai pubblicato in questa stagione non è il primo brano che mi smuove personalmente, ma non voglio né devo dirti perché.
Uff... Mi sono dilungato troppo. Ho buttato giù in questi giorni un raccontino che sembra cadere a fagiolo (già, le "coincidenze"...) Non so se proporlo alla prossima gara.
A presto
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Re: Perseus
Io sono un razionalista, e credo nella ragione come mezzo per indagare la realtà.
Ho ben chiara la natura metafisica della scienza sperimentale, con tutti i suoi limiti legati al metodo. Il fine ultimo della scienza, come della religione, è la ricerca della Verità. Che poi sia la verità assoluta delle religioni o quella momentanea, relativa e falsificabile delle scienze sperimentali, poco importa. Quel che conta non è la loro definizione di Verità, ma il loro approccio alla Verità in quanto tale.
Da parte mia ho smesso di cercare verità, comprese prove sulla divinità.
Curioso il tuo percorso che da Galileo ti ha portato a Tucidide e da Tucidide mi pare ti conduca al Genesi. Io sono partito da Tucidide, sono passato dalle parti di Galileo, seppur non ai tuoi livelli, e mi sono fermato nei dintorni di Parmenide. E qui ci sto bene dopo tutto, mi trova a mio agio.
Non disperarti però se ti dico che, in fondo, con la tua ricerca, tu stia compiendo, senza volerlo, un'esperienza filosofica, anzi un viaggio dentro la filosofia. Tu hai parlato di Storia, di Divinità, di Mito.
A costo di mettere a punto un'altra metanarrazione simile al Mito, provo a ridurre per analogia questi tre termini adoperando i tre concetti basilari della filosofia, che sono: Empirico, Trascendente e Trascendentale. E in realtà il mondo moderno ne ha imposto un quarto: il Nichilismo, su cui tornerò alla fine.
Nella tua ricerca u sei partito dall'Empirico, che è il contenuto dell'esperienza percettiva, che quindi ha sempre una particolare posizione rispetto alle coordinate del tempo e dello spazio.
Io ho dei fruttuosissimi alberi di cachi del mio giardino: sono oggetti empirici, perché possono essere visti e toccati posizionandosi in un determinato luogo dello spazio, quello appunto dove si trova il giardino, e in un determinato periodo di tempo, quello durante il quale i detti cachi esistono. Allo stesso modo, un sentimento provato in una qualsiasi circostanza è empirico, perché avvertito da una percezione della propria interiorità vissuta in un determinato momento del tempo. Di conseguenza un concetto è empirico quando la sua formulazione astratta rinvia, anche tramite altre astrazioni, a un elemento percettivo.
Considera dunque, empirico come legato alle nostre percezioni, ai nostri sensi e all'estensione di essi.
Ci aggiungo che le tre nozioni di empirico, trascendente e trascendentale devono essere comprese nella loro articolazione unitaria perché ciascuna di esse possa venir compresa nella sua specificità. Ciascuna di queste tre nozioni, cioè, può essere compresa in se stessa soltanto all’interno di una comprensione della sua intrinseca relazione con la totalità formata da essa e dalle altre.
L’empirico, infatti, se inteso empiricamente, non mostra di che cosa consista la sua empiricità, non si rende comprensibile come tale. L’empirico, cioè, può essere compreso come empirico soltanto in maniera NON empirica. Come appare l’empirico, infatti, se viene inteso esclusivamente attraverso la sua empiricità? Appare come dato immediato della coscienza. Consideriamo un qualsiasi oggetto empirico, ad esempio i cachi del mio giardino. Essi sembrano dati alla percezione: in condizioni ambientali normali, una persona dotate di normali facoltà percettive che si trovi nel mio giardino al cui interno crescono i miei cachi, e guardi nel posto dove essi si trovano, non può che vederli, e non può far agire la sua vista in modo da percepire, al loro posto, nello stesso luogo spaziale, una melograno o degli albicocchi. Esso sembra costituito nell’immediatezza: chi li vede nel giardino, li riconosce come alberi nel momento stesso in cui li vede, e li riconosce come cachi non appena vede penderne i loti, i frutti, dai rami.
Ma le cose non stanno come sembrano. Marx osserva ironicamente, nell’”Ideologia tedesca”, a proposito della certezza sensibile del dato immediato posta da Feuerbach a fondamento di ogni verità, che lo stesso albero di cachi che ogni mattina si offre alla certezza sensibile di Feuerbach dal suo giardino, vi si trova solo perché sono stati trapiantati in Germania dall’Asia qualche secolo prima grazie ad un’espansione dei commerci, perché c’è precedentemente stata una trasformazione sociale che ha portato a tale espansione dei commerci, e così via. Senza questo sviluppo storico, Feuerbach non vedrebbe là dove lo vede il suo albero, che perciò non è affatto un dato, ma un posto, ovvero una costruzione storica.
Ciò che è empirico viene chiamato anche fatto. Questo termine, benché sia usato come sinonimo di dato, ha una portata semantica più appropriata alla realtà di ciò a cui è riferito: in quanto participio passato del verbo fare, indica non una datità, ma il risultato di una costruzione della prassi. Il fatto, cioè, è fatto dalla storia, sotto un duplice aspetto: la storia ne produce il contenuto, e dalla storia derivano le costellazioni mentali in riferimento alle quali le percezioni ne ritagliano la configurazione dai suoi sfondi.
La storia, d’altra parte, sgorga dall’antropologia e vi si inscrive. E’ anche vero che l’antropologia è plasmata dalla storia e vi si inscrive. Questi due lati debbono essere contemporaneamente ammessi. L’uomo vive immerso nei fatti storici, ed è lui stesso un fatto storico. E’ anche il fare da cui i fatti, e lui stesso come fatto, sono fatti. L’empirico è il prodotto di questa dialettica antropologica. Al di fuori di essa, e di una appropriata comprensione di essa, l’empirico non si rende intellegibile nel suo spessore di realtà, la realtà che non empiricamente lo ha generato, e mostra soltanto la sua superficie percettivamente rilevabile. Questa superficie, proprio perché astratta dalla realtà di cui è l’ultima manifestazione, appare come datità. Assumerla come tale è la scelta originaria di ogni empirismo, una scelta che tuttavia non è empiristica, bensì METAFISICA. La scelta di prendere il fatto come dato di fatto non è un dato di fatto, ma è appunto uno scegliere, un fare, un oltrepassare la datità.
La scelta metafisica dell’empirismo è di fare del fatto un dato, passivizzando rispetto ad esso il pensiero e la comprensione. Spero di esser stato chiaro.
Quanto al Trascendente, esso è invece ciò che trascende la dimensione spazio-temporale del mondo empirico, vale a dire ciò che sussiste oltre di esso. E’ dunque l’aldilà non raggiungibile, neppure in linea di principio, lungo la sequenza delle concatenazioni fattuali.
La trascendenza così intesa è, sul piano logico, una contraddizione in termini. Il problema se la trascendenza esista o meno secondo la sua pura definizione, quindi, non si pone neppure. Una questione di fatto sull’esistenza o sulla non esistenza si pone infatti per tutto ciò la cui esistenza non sia incompatibile con la logica del linguaggio, E’ ad esempio molto improbabile che esista sul nostro attuale pianeta una città in cui durante lo scorso anno non sia stato commesso neppure un reato. Si potrebbe tuttavia ricercare se per caso esista, perché la definizione di città e la definizione di rispetto della legge penale non sono incompatibili. Non si potrebbe invece nemmeno cercare, senza cadere nell’assurdo, un triangolo quadrato. Ma la trascendenza è come un triangolo quadrato, che se è quadrato non è più triangolo e viceversa. Trascendenza è infatti ciò che è aldilà o al di fuori di ogni spazio. Ma queste espressioni sono contraddittorie, perché “aldilà” e “ al di fuori” sono determinazioni spaziali, e hanno senso solo se riferite a entità nello spazio. Si può essere “al di fuori di questa stanza”, “al di là del sistema solare”, non si può essere “al di là dello spazio”. Alla tua facoltà di fisica aveva ragione, dunque? Analogo discorso per ciò che è “al di là del tempo”. D’altra parte se la trascendenza non è “al di là dello spazio (e del tempo)” non è più trascendenza ma IMMANENZA. La trascendenza è in ogni caso inconcepibile, se la si concepisce diventa immanente.
Come ha potuto essere allora il trascendente concepito lungo tutta la storia umana fino ad oggi? Si è riusciti a pensare il trascendente solo perché lo si è concepito NON in modo trascendente, che sarebbe impossibile, ma in modo empirico. Nella misura in cui è stato pensato, il trascendente è stato pensato come iperuranio, cioè come un sovramondo, immagine trasfigurata del mondo sensibile, una specie di attico nobile del grande palazzo dell’empirico. Il trascendente, in altri termini, non può essere posto che come raddoppiamento IDEALIZZATO dell’empirico, come un empirico del piano di sopra privo dei difetti dell’empirico del piano terra della nostra fattuale esperienza. Lo sapeva Platone quando, nel Parmenide (il suo dialogo destinato, a differenza degli altri, più ai dotti che alla divulgazione), mostra come le idee poste in modo trascendente vengano necessariamente o rese inintellegibili o rese intellegibili solo in modo empirico. Lo sapeva Hegel quando, nella sua Fenomenologia dello Spirito, mostra come la coscienza scettica, che non crede in nulla che non sia una particolarità empirica, e la coscienza duplicata, che crede nell’intrasmutabile, siano ciascuna l’altra faccia dell’altra, e si generino l’una dall’altra. Tiro una parentesi: per chi è abituato alle ricostruzioni usualmente adoperate della storia della filosofia, che attribuiscono a Platone la trascendenza delle idee e ad Hegel la logicizzazione della storia, le cose appena dette appariranno straordinarie. Per sincerarsi che sono vere, però, basta leggere i testi di Platone e di Hegel a cui si è fatto riferimento. D’altra parte, il fatto che appaia generalmente incredibile un Platone negatore della trascendenza delle idee, così come un Hegel negatore del panlogismo dei fatti, non è che un aspetto della scomparsa della conoscenza filosofica. Chiusa parentesi.
Il trascendente, dunque, non è mai davvero concepito secondo la sua definizione linguistica, che è come tale inconcepibile, ma è sempre concepito come un altro empirico sovrastante il nostro empirico. Questo sovraempirico è riempito di esigenze antropologiche, sia ontologiche che psicologiche, storicamente non legittimabili su base immanentistica, ed è tale suo contenuto che gli assicura una solida consistenza storica. I contenuti psicologici proiettati sul trascendente, che trascendente non è se non come sovraempirico, veicolano privilegi classisti, chiusure sociali ed istanze repressive che hanno fatto la violenza crudele delle religioni da quando sono nate fino ad adesso, Mito compreso. Ma sul trascendente sono stati proiettati anche contenuti genuinamente ontologici, che rendono così filosoficamente ricche di insegnamenti anche metafisiche compiutamente teologali, come, ad esempio, quelle di Agostino o di Eriugena. A questo proposito la tesi di Hegel è che certi saperi basati su assolutezze trascendenti non sono falsi saperi, nonostante che la trascendenza della loro assolutezza sia falsa, e non sono neppure veri saperi: sono piuttosto saperi apparenti, nel senso che un contenuto realmente umano vi appare nella forma illusoria di un ente extraumano. Non so se mi sono spiegato.
Il trascendente e l’empirico, quando vengono contrapposti l’uno all’altro, costituiscono una falsa opposizione, perché l’empirico considerato solo empiricamente ha un vuoto di significato che rinvia al trascendente come unico suo possibile riempimento, ed il trascendente ha un vuoto di contenuto che rinvia all’empirico come unica sua possibile consistenza. Questo reciproco rinvio, d’altra parte, non è comprensibile che da un punto di vista che non sia né empirico né trascendente, ma trascendentale.
Ed eccoci così al terzo concetto: il trascendentale. Delle tre questa può essere considerata la nozione più filosofica, e per questo più comunemente oscura e più facilmente equivocabile e distorcibile. Darne una definizione rigorosa serve solo fino a un certo punto a renderla comprensibile, in quanto tale definizione ha un significato soltanto nella dimensione aperta dalla filosofia, dimensione alla quale la stragrande maggioranza dell'umanità è esistenzialmente estranea.
Partiamo comunque da una definizione formalmente precisa. Trascendentale è la condizione universale del manifestarsi della realtà come tale. Ossia, è la forma della rivelazione della cose nella loro compiuta realtà. Il trascendentale non esiste, nel senso in cui esistono gli enti, ma è l’essere di tutte le cose che esistono. (Quanto a una definizione del concetto di essere, contrapposto a ente - ciò che esiste -, lo rinvio molto brevemente in basso, nel trattare del nichilismo.)
Il tempo è trascendentale, perché gli eventi non si manifestano come eventi reali se non nella loro collocazione temporale. La libertà è trascendentale, perché gli eventi non si generano come tali, nella loro realtà, se non in quanto libere creazioni o assunzioni dell’uomo. La finitudine è trascendentale, perché le cose non si manifestano se non entro i limiti che, nel renderle finite, ne determinano le specifiche realtà. La giustizia è trascendentale, perché le cose umane si manifestano sempre in una reciprocità di relazioni la cui complessiva configurazione è sempre valutabile come giusta o non giusta.
E cos'è la filosofia, se non esperienza del trascendentale?
Questi succinti perché, la cui esplicitazione argomentativa è il succo della filosofia, sollecitano intanto una prima intuizione del piano su cui la filosofia stessa si svolge. Si tratta di un accesso meno lineare di quello ad altre discipline, in quanto, se è vero che per comprendere il significato della filosofia è necessario comprendere il trascendentale, è anche vero che per comprendere il significato del trascendentale è necessario rappresentarsi il piano della filosofia. Filosofia è esperienza del trascendentale.
Il trascendentale non è né trascendente né empirico, ed è la spiegazione del generarsi del trascendente e dell’empirico. Il tempo, ad esempio, non è certo trascendente, in quanto l’idea del trascendente è l’essere al di là del tempo, ed il tempo non può certo essere al di là di se stesso. Ma il tempo non è neanche empirico, in quanto non è un contenuto dell’esperienza percettiva, essendone la forma: non posso dire che lì c’è il tavolo, lì c’è la sedia, lì c’è la parete, lì c’è la finestra, e lì c’è il tempo, come se fosse un oggetto tra i tanti, e quindi empirico. Perché è la forma in cui tutti si dispiegano, ed è proprio per ciò trascendentale.
L’empirico è il prodotto del trascendentale, di cui però non esprime, empiricamente considerato, se non il riflesso (questo, detto incidentalmente, è il senso veritativo del mito platonico della caverna). Ad esempio: ogni oggetto empirico è temporalmente costituito, ma non manifesta la sua temporalità costitutiva ad una considerazione meramente empirica, cioè come datità sensibile. Il ciliegio di un giardino sta nel giardino durante un certo tempo, (non c’era, ad esempio, un secolo fa, ed un secolo fa non c’era nemmeno il giardino, anch’esso empirico e dunque temporale). Ma ciò che vedo e tocco del ciliegio sono le sue ciliegie, il loro colore rosso, le foglie, la legnosità del tronco, non certo il tempo del suo dispiegarsi. L’intuizione della temporalità costitutiva del ciliegio è una sua intuizione ideale, non empirica, è una intuizione della trascendentalità propria dell’empirico.
L’empirico, che è sempre formato dal trascendentale, non sempre, anzi raramente, lo esprime con una certa compiutezza. Ciò rende più difficile rilevare la presenza del trascendentale nell’empirico, e l’incapacità di rilevarlo è la sorgente generativa del trascendente. Il trascendente è posto infatti come un trascendentale al di là del trascendentale dell’empirico non riconosciuto come tale. Ma poiché non è logicamente concepibile un trascendentale al di là della forma trascendentale dell’empirico, i suoi termini sono sempre contradditoriamente tratti dall’empirico contenuto nel suo non riconosciuto perimetro trascendentale. E’ come se, non conoscendo la struttura scheletrica (il trascendentale) che tiene eretto un corpo (l’empirico), lo si immaginasse sorretto da grandi braccia invisibili (il trascendente), sul modello delle braccia visibili (l’empirico dal cui raddoppiamento trasfigurato si genera il trascendente) che sostengono gli oggetti.
Ora, esiste un quarto concetto con cui l'umanità ha a che fare da millenni: il nichilismo.
Il rifiuto del trascendentale è il nichilismo. Del trascendentale, bada bene, non del trascendente. Nichilismo, infatti, è l’assunzione di un esistere senza essere. Ma, poiché l’essere dell’esistere è il trascendentale, in quanto condizione universale della realtà, quindi del suo essere (distinto dall’esistere), il nichilismo, in quanto negazione dell’essere dell’esistere, non è che il rifiuto di assumere la realtà nella sua trascendentalità.
Esistere ed essere, che nel linguaggio ordinario sono sinonimi, non lo sono nel linguaggio filosofico, ed anzi la dimensione propria della filosofia è stata anticamente aperta da Parmenide proprio attraverso la distinzione tra esistere ed essere.
Esistere significa apparire nella dimensione empirica. Un albero, un fiume, una casa, una città esistono in quanto sono rinvenibili nell’esperienza. Essere è la permanenza ed il significato universali dell’esistere. Il nulla è il non essere, non il non esistere. Un asino con le ali non esiste, in quanto non rinvenibile empiricamente. Un’azienda che mira soltanto al profitto monetario, e che quindi non assicura alcuna stabilità ai suoi lavoratori, ritenuti sempre licenziabili, ed alcun significato umano al loro lavoro, fatto oggetto soltanto di sfruttamento, e che è instabile nel suo stesso assetto organizzativo e territoriale, rimesso sempre in gioco in rapporto alle convenienze di mercato, una tale azienda certo esiste, ma come nulla di essere.
Il nichilismo è quella condizione esistenziale e storica entro la quale l’essere è considerato nulla, in conseguenza del fatto che il nulla è stato scambiato per essere. La pseudofilosofia odierna, quando pensa al nichilismo, pensa a Nietzsche, per il quale il nichilismo nasce con la morte di Dio, si completa con la negazione dell’idealità sovrasensibile quale dimensione dei valori, ed apre così la strada al suo superamento nella trasvalutazione di tutti i valori attraverso il dire di sì alla vita sensibile. Secondo Nietzsche, inoltre, il germe remoto del nichilismo sta nella contrapposizione platonico-parmenidea del divenire, portatore del nulla, all’idealità sovrasensibile, paradigma dell’essere. Tale idealità, infatti, è destinata, non appena pensata in termini razionali, a dissolversi in un divenire non accettato come essere proprio perché originariamente concepito in riferimento ad essa, generando così la situazione del nichilismo.
Ma Nietzsche non considera che l’adesione all’idealità trascendentale dell’essere, come viene argomentata nella tradizione filosofica a partire da Parmenide e Platone, è in realtà la configurazione non nichilistica dell’esistenza. Il germe nascosto del nichilismo sta invece nella credenza in entità trascendenti, che, destituendo di significato proprio l’immanenza antropologica, assume come essere di tale immanenza quelle nullità empiriche che, per tale credenza, rappresentano la trascendenza. Non dunque la morte del Dio trascendente apre lo spazio del nichilismo, ma, al contrario, proprio la sua vita nella credenza umana. Si è detto come il trascendente, costituito come riempimento di senso di un empirico che ne è stato svuotato perché assunto senza trascendentalità, sia tuttavia privo di ogni consistenza che non sia empirica. Per questo ogni divinità trascendente che compare nella storia vi si rappresenta non, per così dire, in proprio, ma attraverso un empiricissimo clero che la mette avanti come sua legittimazione. Ogni clero è un nulla (almeno nella misura in cui non si declericalizza esprimendo la trascendentalità), scambiato però dai suoi fedeli per essere, in quanto rappresentante dell’essere divino (un impensabile che trae pensabilità proprio dal clero che, nel rappresentarlo, lo fa consistere). Ma il nulla scambiato per essere è la vera base del nichilismo, di cui la riduzione dell’essere al nulla è una semplice conseguenza. E poiché ciò che fa scambiare per essere la nullità di ogni organizzazione clericale è la credenza in un Dio trascendente, è appunto la vita, non la morte, di questo Dio, ad aprire la strada al nichilismo.
La morte del Dio trascendente, d’altro canto, dilata la voragine del nichilismo, perché avviene storicamente non mediante un recupero dell’essere trascendentale, ma spostando il meccanismo dello scambiare il nulla per essere (scambio che è la sostanza del nichilismo) dal quel nulla che è rappresentato dal clero e dall’etica autoritario-repressiva, a quell’altro nulla che è rappresentato dal potere della ricchezza monetaria e dalla forza della tecnica. La genialità filosofica di Jacobi ha indicato la voragine del nichilismo, fin dall’inizio dell’Ottocento, nella concezione romantica che, dissolvendo la sostanzialità del reale nell’attività soggettiva, ha trasformato la soggettività in forza produttiva di sempre nuovi fenomeni attraverso l’annichilimento dei precedenti. Hegel, accettando la soggettività creatrice come spazio indispensabile alla libertà, ha indicato la via per mantenerla sostanziale, concependola non più romanticamente, ma logicamente, entro categorie che siano limiti trascendentali al suo dispiegarsi. Ma la sintesi filosofica di Hegel è stata espulsa dalla prassi storica che, sfociando nel capitalismo e nella tecnica, è diventata demiurgia nichilistica.
L’epoca moderna, comunque se ne vogliano fissare i limiti cronologici sempre convenzionali, è caratterizzata dalla concezione della libertà come autodeterminazione della soggettività individuale (concezione diventata per noi ovvia, ma estranea alle epoche precedenti, che avevano inteso in altri modi la condizione libera), e dall’obiettivo di emancipare la soggettività individuale da tutte le autorità e le comunità capaci di soffocarne la creatività nel pensiero e nella prassi. La modernità è cioè come tale emancipatoria, e coincide nel suo concetto con i caratteri giuridici, politici, economici e scientifici della cosiddetta civiltà occidentale, distinta dall’Occidente come spazio geografico e come storia complessiva svoltasi entro tale spazio.
Da quando, nel 1979, Jean François Lyotard ha pubblicato il suo storico saggio “La condizione postmoderna”, ha cominciato a diffondersi la consapevolezza che la modernità è tramontata, e viviamo nel postmoderno. Ma che cosa deve intendersi per postmoderno? Lyotard, che ne ha in un certo senso coniato il termine sostantivo, traendolo da una aggettivazione data negli anni precedenti, a cominciare da Touraine, alla cosiddetta società postindustriale, lo ha concepito, in sostanza, come un nuovo statuto del sapere. Il sapere premoderno era costituito da quelle che lui ha chiamato “grandi narrazioni”, perché raccontano un senso complessivo e finalistico della storia umana, o “metanarrazioni”, perché erano riferite a molteplici narrazioni specifiche di fatti particolari come intepretazioni veritative di esse. Il sapere moderno si è legato alla potenza pragmatica di una nuova scienza capace di dominare l’empirico attraverso il linguaggio matematico e tecnico, la scienza moderna, appunto. Questa scienza si è all’inizio inscritta nell’obiettivo emancipatorio della modernità falsificando tutte le metanarrazioni premoderne soffocatrici della libera soggettività individuale, rivelando e poi creando nuovi fatti incompatibili con esse. Tale inscrizione è stata tuttavia opera di altre narrazioni, da quella baconiana a quella illuministica, da quella positivistica a quella popperiana, che hanno legittimato le scoperte scientifiche come epopea di disvelamento delle cose e di liberazione dell’uomo. Ma anche questa narrazioni si sono via via rivelate infondate. E’ così nata quella incredulità generale nei confronti della metanarrazioni che secondo Lyotard definisce il postmoderno. La caduta di ogni valenza legittimatoria delle grandi narrazioni cambia lo statuto del sapere. Il postmoderno è un modo di concepire il sapere oltre ogni metafisica, oltre ogni teoria di legittimazione, oltre ogni idea di formazione dello spirito, in cui il sapere diventa trattamento operativo delle informazioni.
Sviluppando queste considerazioni e andando oltre lyotard stesso, si può dire che il postmoderno è una forma di legittimazione del sapere attraverso la potenza produttrice delle cose. Esso giunge così agli antipodi del platonismo, che legittimava il potere attraverso il sapere del bene collettivo. Una volta distrutti i nessi coesivi della società dalla mercificazione capitalistica della vita, è scomparsa l’idea stessa del bene, degradato a utile particolare, e del sapere, degradato a potenza. Ciò che ha la potenza di imporsi, nella produzione, nella distribuzione e nella circolazione, e di fabbricare immagini collettive, diventa perciò stesso credibile. Le informazione stesse che lo sostengono sono fabbricate, mentre la potenza sistemica esclude dalla circolazione informazioni difformi.
La realtà scompare così nel compiuto nichilismo, che la sostituisce con l’effettività sempre flessibile, anche nell’esistenza umana. Postmoderno non è, insomma, che un altro nome per il nichilismo compiuto, che a sua volta non è che un altro nome per il capitalismo assoluto, che non è altro se non una veste della metafisica. La potenza nichilistica del capitalismo, d’altra parte, non ha dovuto superare grosse resistenze, perché le idealità che hanno preceduto il capitalismo assoluto, da quella cristiana a quella marxista, erano trascendenze già in loro stesse potenzialmente nichilistiche. Non è possibile, infatti, credere in un Dio che non impone alcuna lotta concreta contro le ingiustizie del mondo, ed essere poi in grado di lottare contro le ingiustizie che più hanno colonizzato le menti, quelle insite nella potenza del capitale. Non è possibile credere nell’identità tra storia e progresso, identità che è implicita nel marxismo storicamente esistito, e poi essere in grado di contrastare, almeno sul piano intellettuale e morale, il capitalismo assoluto, che è un portato della storia e una sua potenza effettiva.
E per concludere, cosa rimane? Il tentativo razionale di spiegare la trascendentalità dell'empirico non attraverso gli enti, tra cui il divino, non attraverso il trascendente, ma attraverso l'Essere trascendentale dell'Empirico.
Insomma, io sono uscito dalla sandbox del trascendente e non ci voglio più tornare.
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Re: Perseus
Il mio cervello ha fatto PUM! Mi ci vorranno tre giorni per capire un quarto di quello che hai scritto (se ci arrivo)!
Ma te ne ringrazio: io so di essere ancora nella mia sandbox e, sebbene abbia scritto che il mio obiettivo non è uscirne, quanto trovarne i limiti, non mi lamenterei certo se riuscissi a uscirne!
Ti potrò rispondere con migliori e più articolati argomenti quando sarò riuscito a raccogliere tutto questo materiale.
Nel frattempo, ricevi i miei più sentiti ringraziamenti, per ora solo del tempo speso a tirare giù 'sto papiello; più in là, di quello che ne avrò capito.
Oddio... oddio...
Racconti alla Luce della Luna
Autore presente nei seguenti libri di BraviAutori.it:
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A modo mio
antologia AA.VV. di opere ispirate a storie famose, ma rimaneggiate dai nostri autori
A cura di Massimo Baglione.
Contiene opere di: Susanna Boccalari, Remo Badoer, Franco Giori, Ida Daneri, Enrico Teodorani, Il Babbano, Florindo Di Monaco, Xarabass, Andrea Perina, Stefania Paganelli, Mike Vignali, Mario Malgieri, Nicolandrea Riccio, Francesco Cau, Eliana Farotto.
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Vivere con 500 euro al mese nonostante Equitalia
la normale vita quotidiana così come dovrebbe essere
Vi voglio dimostrare come con un po' di umiltà, di fantasia e di buon senso si possa vivere in questa caotica società, senza possedere grandi stipendi e perfino con Equitalia alle calcagna. Credetemi: è possibile, ed è bellissimo!
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Human Take Away
Umani da asporto
"Human Take Away" è un racconto corale dove gli autori Alessandro Napolitano e Massimo Baglione hanno immaginato una prospettiva insolita per un contatto alieno. In questo testo non è stata ideata chissà quale novità letteraria, né gli autori si sono ispirati a un particolare film, libro o videogioco già visti o letti. La loro è una storia che gli è piaciuto scrivere assieme, per divertirsi e, soprattutto, per vincere l'Adunanza letteraria del 2011, organizzata da BraviAutori.it. Se con la narrazione si sono involontariamente avvicinati troppo a storie già famose, affermano, non era voluto. Desiderano solo che vi gustiate l'avventura senza scervellarvi troppo sul come gli sia venuta in mente.
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Nota: questo libro non proviene dai nostri concorsi ma è opera di uno o più soci fondatori dell'Associazione culturale.
Gara di primavera 2024 - La cantautrice calva - e gli altri racconti
A cura di Massimo Baglione.
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Calendario BraviAutori.it "Writer Factor" 2013 - (a colori)
A cura di Tullio Aragona.
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La Gara 57 - Imbranati
A cura di Carlocelenza.
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