Gara 66 - Bando e racconti

Qui ci sono tutte le vecchie Gare letterarie, dal 2008 all'estate 2018.
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Ser Stefano
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Gara 66 - Bando e racconti

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Siete chiamati a sognare.
Il tema di Gara 66 sarà il sogno, inteso come attività onirica in senso stretto (raccontare un sogno o qualsiasi cosa che abbia a che fare coi sogni) e nel senso più ampio ancora (sonno o la mancanza di esso).
Il racconto dovrà essere tassativamente realizzato in prima persona (io), non importa che sia come voce narrante o sotto forma di diario.

Ammesso qualsiasi genere: comico, noir, giallo, fantastico, horror…

Vi ricordo le regole ufficiali, che trovate qui: viewtopic.php?f=80&t=2308
Riassumendo:
- lunghezza massima del testo: 1000 parole o 6000 caratteri (spazi inclusi) con una tolleranza del 10%;
- chi partecipa dovrà votare e commentare tutti i racconti eccetto il proprio; in caso contrario verrà escluso dalla Gara e non riceverà alcun premio né pubblicazione;
- ogni racconto dovrà essere corredato di un’immagine, da inserire preferibilmente in apertura del brano;
- voti da 1 a 5, consentiti anche i tagli a mezzo (1,5 e così via fino al 5);
- i racconti postati non potranno più essere modificati se non a gara conclusa; al termine dei giochi, si potranno apportare eventuali modifiche per la pubblicazione sull’e-book.

Date:
I racconti potranno essere postati come risposta a questo messaggio fino alla mezzanotte del 30 Settembre 2017 (sabato).
I commenti e i voti dovranno invece essere postati a questo link: viewtopic.php?f=80&t=5127 dal 1 Ottobre fino alla mezzanotte del 15 Ottobre 2017 (domenica).

Chi vincerà avrà l’onore e l’onere di organizzare la gara successiva.
I premi saranno:
1. Pubblicazione dei racconti in digitale, con il consueto e-book.
2. Il vincitore otterrà un abbonamento di 10 euro grazie al quale saranno scaricabili gli ebook integrali (pdf o epub) delle nostre pubblicazioni cartacee (vedi post "I premi delle gare" qui: viewtopic.php?f=80&t=2472
3. L'attestato stampabile che attesta la vittoria.
4. Nel caso in cui si abbia una buona partecipazione di concorrenti, con tutti i racconti sarà creato un libro acquistabile (per un periodo di tempo limitato) il cui ricavato andrà devoluto a braviautori.
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Angela Catalini
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Re: Gara 66 - Bando e racconti

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DUE METRI

Se il colloquio va male sono fottuto, inutile girarci intorno.
Quel figlio di puttana di Wrench è dentro da almeno dieci minuti. Con la porta imbottita di cuoio non si sente niente, neanche un fiato. Sembra una di quelle porte dei manicomi, per impedire che le urla facciano impazzire i sanitari.
Su un tavolinetto basso ci sono delle riviste di moda, signorine in costume da bagno mostrano orgogliose l’ombelico. Difficile che una di loro capiti in officina, in genere sono i mariti a portarci la macchina e poi passano direttamente in ufficio.
Da quando Moe se n’è andato in pensione, Wrench ne ha approfittato per mostrare i muscoli e l’ha fatto nel peggiore dei modi: pisciando nella Margarita durante la festa di commiato. Moe era l’unico che lo teneva a bada, senza di lui Wrench ci farà a pezzi.
In realtà il suo vero nome è Archibald Wood, ma uno che gira perennemente con una chiave inglese in mano, non poteva che chiamarsi Wrench. Prima di entrare ha piazzato la sua maledetta chiave sotto il mio naso e mi ha costretto ad alzare la testa. Grugno contro grugno.
- Prima o poi te la faccio ingoiare quella chiave, Wrench - ho sibilato.
Lui ha riso, la gola si è gonfiata come quella di un rospo, poi si è fatto serio. - Devi prima togliertela del culo, Asso.
Il soprannome che mi sono guadagnato sul campo, resuscitando vecchie carrette, ha un suono diverso in bocca a Wrench. Mi odia perché sono più giovane, perché ho più capelli e più cervello di lui, e poi mia moglie non mi ha lasciato per andare a fare la spogliarellista a Seattle.
Per il posto di Capo Officina vogliono un tizio a posto e pare che questo esaminatore sia uno strizzacervelli. Uno che ti rovista nella testa, apre cassetti, si fa gli affari tuoi.
Wrench esce con un sorriso enigmatico, sembra la Gioconda. Sarà a circa tre metri da me. Peccato.
La segretaria del Dottor Lewis mi fa accomodare nella stanza, il medico è seduto dietro alla scrivania. Sei metri circa. Ha i capelli con la sfumatura alta, come Wrench.
- Buongiorno Michael, si distenda su quel lettino, per piacere.
Non mi aspettavo questo tiro mancino, da quaggiù non riesco neanche a vederlo, fisso il quadro sulla parete che è un’orgia di colori. L’interrogatorio inizia nel modo più classico.
Dove vive, cosa faceva prima di venire a Mountlake, le piace il suo lavoro? Rispondo a ogni cosa cercando di apparire rilassato, mentre osservo la punta delle scarpe macchiate di fango.
- Sogna la notte? Qual è l’ultimo sogno che ha fatto?
Sono fregato, perché io non sogno mai. Quelli come ma non sognano, ma vallo a spiegare a Oxford-ora-ti-frego. Cazzo, dammi un appiglio Dottor Lewis, qualcosa per guadagnare tempo. L’occhio mi cade sull’immagine di una donna bruna che sorride dentro una cornice d’avorio. Bingo!
- Ho sognato una donna con i capelli neri, una di quelle che ti giri per strada a guardarle - dico.
- Mi parli del suo sogno.
Faccio la radiografia all’immagine di quella donna: occhi chiari, capanno da pesca alle spalle e imbastisco la storia.
- Be’, lei è sposata e il marito ha l’hobby della pesca.
- Vada avanti.
- Ogni fine settimana vanno al fiume, hanno un capanno a pochi passi dalla riva. Lui le ha regalato delle perle per farsi perdonare una scappatella - improvviso.
Ci ho preso? Forse no. Poi sento il rumore della sedia e i passi felpati del medico che si avvicina. Si ferma dietro di me, due metri esatti. Sei mio, Dottor Lewis. Adesso la tua mente è un libro aperto e posso sfogliarla a mio piacimento. Non hai studiato a Oxford, ma fa lo stesso. Ci sono un sacco di cose interessanti nella tua testa, un vero spasso.
- Lei è nel sogno, Michael?
Le immagini scorrono veloci, sto sfogliando la tua vita, posso dirti anche che misura di scarpe porti, cosa mangi a colazione, quale posizione preferisci per scopare.
Adesso sono un fiume in piena. - La seguo mentre va in città. Entra in un negozio di profumeria del centro, ruba un mascara che fa scivolare nel reggiseno. L’impresa l’ha esaltata, adesso ne ha bisogno come la droga. Stavolta entra in un negozio di biancheria intima, la commessa la conosce e la saluta. Ciao Hellen, che piacere vederti. Devo assolutamente mostrarti la nuova lingerie. Ruba un paio di mutandine che esibirà la sera stessa quando incontrerà il suo amante. Si chiama Terence e fa il giardiniere, l’ha assunto il marito su consiglio di un cliente. A proposito, vuole sapere che mestiere fa il marito?
Il Dottor Lewis non risponde, credo abbia smesso persino di respirare. Il passo è pesante adesso, si lascia cadere sulla sedia con un tonfo. Non te lo aspettavi, vero Oxford? Ti starai chiedendo come faccio a sapere tutte queste cose di tua moglie, ma non hai il coraggio di chiederlo. Per leggere nella mente delle persone mi bastano due metri. Ti ho fregato alla grande. Mi sa che Wrench e la sua chiave inglese dovranno fare le valigie.
Fuori il vento ha fatto il suo lavoro spazzolando per bene il cielo, il blu si riflette nei palazzi di vetro e acciaio.
Alzo il bavero della giacca e mi infilo nel tunnel che porta alla metropolitana. Qualche volta vorrei chiudere il rubinetto e smettere di ascoltare i pensieri della gente.
Quello che proprio non sopporto, sono i loro sogni.
Autore presente nei seguenti libri di BraviAutori.it:
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Enrico Gallerati
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Re: Gara 66 - Bando e racconti

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Macchie d'inchiostro


Mi svegliai di mattina tarda. Mi sentivo rilassato, ma notai che era già mezzogiorno. Alessia preparava la pasta tra il miagolare dei gatti; in alto il cielo pareva un enorme piscina.
L'odore di pasta mi riportava a quando vivevo da mia nonna Piera. Nonostante tutto quel periodo fu sereno, una vita semplice fatta di poche cose.
Abitavo in un quartiere popolare nella zona est della città. Era un plastico di palazzi, lamponi e spaziose aree verdi dalle atmosfere desolanti.
Io ero il ragazzino orfano, lo sentivo bisbigliare spesso a scuola. Mi scrutavano come fossi una reliquia: - è lui, quello con la maglietta rossa, quello che sta mangiando la focaccia -
- Dev'essere stato brutto trovarsi senza entrambi i genitori e la sorellina da un giorno all'altro -
- E già… io mi sarei suicidato certamente… -
Io però avevo rimosso quei trascorsi, ma intuivo: era vero, avevo perso i genitori e mia sorella Sabina. Ma la cosa non mi turbava più di tanto. In fondo vivevo bene ugualmente, anzi, mia nonna Piera mi dava l'affetto che avevo bisogno, mi riempiva di cose buone da mangiare ed era sempre premurosa nei miei confronti. Mi aveva comprato una bella bicicletta, quella che avevo preferito tra centinaia nel negozio che distava due isolati dal palazzo dove abitavamo. Non c'era giocattolo che chiedevo e lei non comprasse, così ero io a autolimitarmi, capendo che non c'era limite. Ogni tanto sì si arrabbiava, ma dopo pochi minuti ero sempre io a decidere cosa fare della mia vita.
E allora cos'era quel compatimento? Caso mai erano loro i poveretti: non potevano guardare la TV quando volevano, e tanto meno non potevano scendere a giocare all'ora che gli pareva.
Erano privati di molte più cose rispetto a me, e questo perché avevano due splendidi genitori, che se li tenessero i loro cari, io stavo bene così!

La maestra d'italiano si era alzata con l'aria un po' sonnolenta, poi aveva proposto di farci fare un tema sui nostri genitori.
- Scrivete come sono, del rapporto che avete e cosa cambiereste di loro, ammesso che vogliate cambiare qualcosa. Dai! Avete due ore, penso che bastino, non dovete mica fare un romanzo -
Nella calasse si era formato un brusio, sembrava un alveare in subbuglio.
- E allora! Cos'è tutto questo trambusto? Silenzio! -
- Prof, ma lui i genitori non li ha… -
- E vero Milo? -
Io feci un cenno di sì con il capo.
- Mi dispiace, quand'è successo? -
- Tre anni fa -
- Allora dovresti ricordali? -
Io feci un breve cenno negativo con il capo.
- Ma scusa Milo, tu adesso ai dodici anni, tre anni fa avevi nove anni, qualcosa ti ricorderai pure no? -
- Il tema lo faccio su mia nonna Piera, posso? -
- No, dev'essere sul tuo babbo e tua mamma, scrivi quello che ti senti, se non vuoi proprio farlo non succede niente, ma voglio che almeno ci provi. Scrivi ciò che ricordi, qualsiasi cosa, va bene Milo? -
Aveva detto la prof con la sua voce vellutata, sfiorandomi la punta del naso con le sue dita affusolate. Si chiamava Magda ed era assai sensuale, e anche se aveva a che fare con un ragazzino non evitava di far sentire la sua essenza di femmina; le piaceva essere provocante, ma lo faceva sotto la spinta della sua natura e non era mai volgare.

Avevo il quaderno davanti; vedevo delle righe orizzontali, una sull'altra. I miei compagni scrivevano, tutti scrivevano tranne me.
Cercai di concentrarmi, così mi apparve una collina, ai piedi di essa mia madre che lavorava nel verde dei campi.
C'era un sole grande, pennellava d'oro il fienile. Il vitellino muggiva, con il suo muso grazioso mi dava dei colpetti sulle gambe nude, aveva il manto color caffè latte.
- Macho… -
Ora tutto intorno a me era buio, io ero al centro di un cono di luce vividissima, accecante.
C'era mio padre sul suo vecchio trattore, l'aratro scalzava grosse zolle di terra, in un certo momento fu inghiottito dal rosso del tramonto.
Era apparso il muso tondo del vetusto automezzo che avanzava verso di me. Poco dopo il viso cotto dal sole di mio padre mi era davanti, mi aveva sorriso, poi mi aveva fatto cenno di salire.
Sentivo le vibrazioni e le asperità del terreno, mio padre guidava con abilità.
Poi all'improvviso si fermò, scese con l'agilità di un ginnasta, e sempre con un cenno del capo mi fece segno di guidare, lui d'altra parte era uomo di poche parole. In quel momento i soli erano tre, due erano all'interno dei miei occhi e uno appeso nel cielo.
Mia sorella Sabina giocava nel cortile, era insieme alle sue amichette. Poco dopo giocavo in quel gruppo di bambine dai vestiti colorati, mi divertivo a scoprire i loro corpicini vividi di vita, erano le prime pulsioni sessuali.

Sabina aveva sempre tante cose da mostrarmi, ora un rospo, una pianta, uno strano sasso a forma di fallo.
- Hai visto… - e aveva emesso un risolino arruffando il musetto che pareva levigato dalla corrente di un torrente.


L'alone di luce abbagliante scomparve, non c'era più nemmeno il buio. Vedevo la luce che entrava dalle grandi finestre dell'aula.
Ora mi rendevo conto di cosa avevo perso, solo ora. Il mondo era minuscolo a tale grandezza, e avevo cancellato il tutto per sopravvivere a quell'infinita dimensione. Ma adesso non c'era più nulla da fare: forse ero tornato il Milo che si era specchiato nell'acqua pura di quel laghetto nell'estate di tre anni fa?
La diga del passato si era rotta cancellando il presente; tutto ora si mostrava senza alcun significato.
Non avrei mai più rivisto mio padre, né mia madre e tanto meno mia sorella Sabina. Non c'era il caso, avrei potuto camminare, incontrare, ridere, piangere, mangiare, vivere, ma non avrei mai più avuto la possibilità d'incontrarli, e ciò si manifestava come una crudeltà insuperabile.
Qualcosa di profondo mi era nato dentro. Ora mi sentivo cambiato. Aprii le mani, la penna cadde sulla carta producendo un rumore sordo; sapevo che d'ora in avanti l'immagine dei miei famigliari non sarebbe mai più svanita. E con quell'immagine gli anni sarebbero stati molto complessi, forse nemmeno mio padre s'immaginava le vicissitudini a cui sarei andato incontro, ma almeno io, al contrario di lui, ero ancora vivo.

Avevo davanti le pagine a righe blu del quaderno. Non c'era scritto nulla di comprensibile, o almeno qualcosa dovevo aver buttato giù, ma erano macchie bluastre informi sciolte nella carta, avevo pianto inchiostro?
Mi guardai attorno, nessuno stava scrivendo, tutti mi osservavano, anche l'insegnante, notai che aveva il volto rigato dalle lacrime, anche i miei compagni avevano dei resti di pianto sulla faccia.
L'insegnante mi fece segno di portarle il quaderno.
Lo esaminò per qualche secondo e poi lo chiuse.
- Scusa Milo… – mi disse, poi riaprì il quaderno e scisse un ottimo, lo fece in fondo alla pagina a destra, come se al posto di quelle macchie d'inchiostro ci fossero state parole.
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Mastronxo
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Re: Gara 66 - Bando e racconti

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Un minuto


Dieci minuti alle tre del mattino.
No, non ci siamo. Già il titolo di questo racconto è una schifezza.
Non fa venire voglia di immergersi nella trama, né stimola la curiosità nel settantacinque per cento di quelli che vi si imbattano per caso su di uno scaffale in libreria. Trattasi di una mera presa per i fondelli per nascondere l’insulsaggine di quanto riportato in questa pagina.
Altro che scrittore! Un vermaccio, ecco cosa sono. Promessa della letteratura contemporanea? Ma non fatemi ridere! Non sono altro che un narcisista della tastiera, vuoto fantoccio imbudellato di pagine Word sovrascritte una sull’altra, privo di qualsivoglia talento e ispirazione, voce narrante poco più fascinosa di Duffy Duck o di Ciccio Ingrassia.

Cinque minuti alle tre del mattino.
Ser Stefano ti odio! Vorrei dormire, sarebbe così bello. E invece no, la mia sindrome psicotica del perfezionista istrionico, anche detta “Sindrome del Primo”, mi costringe a mantenere il coccige incollato alla mia vecchia poltrona in similpelle fino a quando non avrò scatarrato sullo schermo le famose mille parole con tot caratteri di tolleranza, le quali faranno affermare al famoso settantacinque per cento di cui sopra quanto io sia genio e gli altri polvere.
Fior fiori di psicologi, ipnotisti, consulenti filosofici, mentalisti, cultori di NCIS ed esperti valutatori di profili criminali sostengono che rendersi conto del proprio problema mentale implichi che, in realtà, quel determinato problema mentale sia già stato risolto o che, addirittura, non si sia mai presentato. Perdonatemi la licenza poetica della seguente imprecisione grammaticale, ma io, a questa gente, gli credo! Come potrei non avere piena fiducia in quei cipigli così seri, in tali solchi frontali perfettamente scolpiti, nelle logiche perfette di cui tanto si fanno promotori?

Due minuti alle tre del mattino
È quasi l’Ora del Lupo e ancora non dormo.
La pagina Word è bianca. Non importa. Quel che conta è superare il fatidico momento in cui due idee perfette ma ancora distaccate entrino l’una nell’orbita dell’altra e, con quella che a tutti gli effetti può essere riconosciuta come una collisione spazio-tempo, vadano a dare origine a una dimensione sincronica perfetta di intenzioni e collegamenti neuronali: così nascono le migliori opere, questa è a tutti gli effetti la sostanza di base della creatività.
Stacco il coccige dalla poltrona, mi alzo e mi stiracchio. Potrei bere un po’ di assenzio, ma che senso avrebbe? Nessuno sarebbe testimone di questo comportamento da scrittore maledetto.

Tre del mattino
Ci siamo. Non devo guardare superfici riflettenti.
Niente finestre né bicchieri, niente metalli od occhiali. Inutile parlare degli specchi.
Chiudere gli occhi e spegnere la luce? Rido. Nel buio si nascondono cose che ti sfiorano: preferisco vedere e sapere cosa si trovi intorno a me, piuttosto che impazzire nell’immaginare ciò che non esiste. Non capisci il mio punto di vista? Ti spiego meglio.
Ti trovi in mezzo all’oceano in un momento di bonaccia: piena notte. Luna e stelle sono spente; all’improvviso, percepisci un piccolo sbuffo d’acqua a pochi metri da te, una lieve increspatura dell’acqua piatta, poi qualcosa di viscido ti coccola la gamba. Magari è un sacchetto di plastica, una medusa innocua, oppure un pesce attirato dai sali del tuo corpo. E se invece… Fosse altro? Non preferiresti saperlo subito e metterti il cuore in pace? No, non se ne parla, la luce resta accesa, e le cose scricchiolanti e polverose che mi fanno visita ogni notte le voglio vedere.
Mi avvio in cucina. I miei piedi scalzi sono freddi, le piastrelle paiono ghiaccio.
Mia mamma è di spalle e sta lavando i piatti. La spugna sibila piano sulla ceramica, le stoviglie tintinnano nel toccarsi nel lavabo. Le spalle di lei sussultano lievi mentre con movimenti circolari e lenti strofina la superficie di ogni oggetto. Tira su col naso, un po’ ingobbita, sembra stia piangendo.
È morta anni fa quand’ero piccolo. Non ricordavo avesse i capelli coi riflessi arancio.
Mi avvicino. Non ho paura, mi è solo venuta un po’ di tristezza. Il termine giusto sarebbe nostalgia, ma non rende. Sembra molto infelice.
Guardo al di sopra della sua spalla, sorbendo il suo odore e la sua polvere. Se la depressione avesse un sapore, probabilmente sarebbe quello che in questo momento sto sentendo. Il lavandino è pieno di sangue fino all’orlo, lucido e scuro. La mamma ci immerge le mani, tira fuori una forchetta e la passa piano con la spugna. Inizia a canticchiare, mentre gli squarci verticali nei suoi polsi continuano a buttar fuori sangue a intermittenza. Vorrei chiamarla e consolarla, dirle che non è sola, che adesso che sono grande a lei ci penso io, ma non posso. Non si può e non si deve interferire con i morti.
Torno in soggiorno. La televisione ora è accesa, il mio fratellino è spaparanzato sulla poltrona sulla quale stavo io pochi istanti prima. È bianco come il latte. Quando mi vede mi sorride, la sua bocca sembra un antro senza fine. Poi torna a guardare lo schermo sul quale non compare alcuna immagine, solo una silente ammucchiata di pallini grigi e bianchi e neri che si susseguono uno sopra l’altro. Mi sarebbe piaciuto rispondere al suo sorriso, mi manca… Una volta guardavamo i film dell’orrore abbracciati fino a che lui non si addormentava e io rimanevo sveglio per proteggerlo dai mostri. In realtà avevo una paura folle ma a lui non l’ho mai detto. Dovevo essere forte.
Mi volto e lo lascio al suo programma. Oltre il disimpegno c’è la camera da letto. Un lampo improvviso illumina l’interno: sembra che il temporale sia scoppiato solo in quella stanza, ma il tuono non si sente, e la luce non si accende. La tempesta silenziosa mi permette di vedere il riflesso di bagnato sulle pareti, rivoli d’acqua che scendono dalle travi a vista e gocciolano sulle piastrelle, sul materasso, sulle coperte. La stanza è vuota, e io ho un sonno che non riesco a tenere gli occhi aperti.
Tocco le lenzuola. Non mi stupisco di sentirle asciutte e ghiacciate. Mi stendo supino, chiudo gli occhi, sembra che la stanchezza mi abbia cucito le palpebre come a una bambola di pezza.
Nel dormiveglia una vocina mi chiama, viene dal salotto. Non capisco cosa dice, ma è un po’ triste. Nostalgica, sarebbe la parola giusta. Ma non rende.
Cade un piatto e va in frantumi.
“Domani dovrò sistemare…”, è uno di quei pensieri senza senso che ti colgono quando stai per prendere a sognare. “… e scriverò un racconto come si deve”.

Tre minuti e zero uno del mattino.
Buio.
Roberta Michelini
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Re: Gara 66 - Bando e racconti

Messaggio da leggere da Roberta Michelini »

A notte fonda.

Schiele.jpg

Mi svegliai di soprassalto. Era notte fonda, probabilmente le due o le tre. Fuori era freddo e la nebbia m’impediva di distinguere qualsiasi forma; solo la luce fioca dei lampioni sfumava in grossi soffioni gialli. Attraversai la piazza deserta, poi il ponte curvo sul fiume e svoltai a destra sul corso, fra le alte facciate asburgiche. Non c’era un’anima. Battevo i denti e mi stringevo addosso il cappotto, camminando a testa bassa. L’asfalto era lucido per l’umidità.
Giunsi davanti al portone; era aperto come sempre, ed entrai. Salii le due rampe di scale al buio, appoggiandomi con la mano alla parete dall’intonaco scrostato e ammuffito. La doppia porta di vetro smerigliato che dava accesso all’appartamento non era chiusa a chiave, ma solo accostata. Non si sentiva alcun rumore.
Percorsi il corridoio buio in punta di piedi e mi fermai davanti alla porta della camera di M. Avevo fatto quella strada insieme a lui decine e decine di volte, quando i suoi dormivano e lui mi portava nel suo letto.
Da sotto la porta filtrava una lama di luce pallida. Spinsi col palmo della mano, e alla leggera pressione l’uscio si aprì. La stanza era illuminata da una piccola lampadina gialla, opaca, che pendeva dal soffitto appesa a un filo attorcigliato, fin quasi a toccare il letto. Mi si presentò davanti agli occhi una scena spettrale.
M. era sdraiato su un fianco, immobile, esangue. Solo dai suoi occhi aperti e luccicanti, fissi nel vuoto, si capiva che era vivo. Seduta sulla sponda del letto, Teresa, la donna per cui M. mi aveva abbandonata, mi guardata beffarda.

«Vieni pure», mi disse, sorridendo malignamente.
Io mi avvicinai tremando di disagio e paura. «Avvicinati» disse lei. «Di più, di più. ».
M’inginocchiai sul letto accanto a M. Lui non si muoveva. Era coperto fino al mento da un lenzuolo stropicciato e lurido, dal quale sporgevano le braccia magrissime. Dalla finestra potevo scorgere le foglie dei platani che fremevano nel buio.
«Avanti» disse lei, «Fai quello che devi fare. »
Sollevai il lenzuolo. «Dai, fallo», disse sogghignando, «non avrai paura di me…»

Mi chinai su di lui, ma prima che la mia bocca toccasse il suo sesso, dovetti ritrarmi, paralizzata dall’orrore: una lunga piaga infetta, rossa e rosata ai bordi, più scura dentro, gli correva dall’inguine lungo il fianco, risalendo verso l’ombelico, per poi girare, dal lato sinistro, dietro la schiena. Allungai le dita per toccarla, ma mi fermai; lo guardai prima negli occhi, come per interrogarlo. «Avanti, obbedisci!» ordinò Teresa. «Visto che sei così brava, fammi vedere cosa sai fare.»
«Sei pazza», risposi tremante, «non vedi che sta morendo?»
«Sì», disse M. con uno sguardo disperato, «è così: sono finito. Non so se ce la farò.» Poi, dopo un lungo respiro, aggiunse: «Se così non fosse, vorrà dire che ho già avuto abbastanza dalla vita, e non mi è concesso vivere di più.»

Il sogno stava prendendo una piega grottesca. Mentre M. giaceva immobile in preda alla febbre, Teresa mi spintonava, e sghignazzava. «Forza, troietta, fammi vedere cosa sai fare!»
Volevo gridare e la voce non mi usciva. Mi si appannò la vista; sentivo il bisogno di stringere M. tra le braccia, ma ero paralizzata dal terrore.
Quando mi girai verso la finestra, Teresa era sparita.

«Maledetta strega», pensai, «me l’hai strappato dalle mani, e ora me lo restituisci così, come un fantoccio, e ridi!»
D’improvviso mi ritrovai sola in mezzo alla strada deserta, con le case che incombevano su di me come montagne, nel primo chiarore dell’alba. Mi sentivo morire d’angoscia. In preda a una specie di delirio, seguendo un impulso impellente tornai sui miei passi, risalii le scale e aprii di nuovo la porta della stanza.
Le braccia giallastre sporgevano dal lenzuolo, ancora più magre. Giallo il suo viso, gialla la luce della lampadina, giallo il lenzuolo stropicciato. M. mi guardò come ti guarda un cane accucciato ai tuoi piedi che implora una carezza, e un senso d’oppressione ancora più forte mi strinse lo stomaco.
Sapevo che l’inquietudine fra poco si sarebbe fatta insopportabile e neanche stavolta saremmo riusciti a spiegarci. M. non mi aveva mai detto nulla, né che mi amava, né perché quella sera maledetta se n’era andato all’improvviso con lei. Solo mi portava nella sua stanza e mi chiedeva di rimanere con lui fino al mattino. Io me ne andavo sempre verso le tre, poi la sera dopo fingevamo che tra noi non ci fosse nulla.

Mi sdraiai vicino a lui; sentivo sulla pelle il calore della sua febbre.
«Chi ti ha fatto questa ferita? È stata lei?»
«Lasciami stare, non vedi che sto male? Sono io che sto male, non è un torto che faccio a te! Lo vuoi capire o no? Hai sempre pensato solo a te stessa! Pensi di avermi dato più di quello che hai ricevuto? Pensi di avermi dato più di lei? E quanto alla ferita, c'è sempre stata: sei tu che non te ne sei mai accorta. Ho cercato di nasconderla, questo è vero, finché ho potuto; ma ora non è più possibile: si è allargata troppo, non si rimargina. Non c’è più niente da fare.»
Abbassai la testa, e appoggiai le braccia sulle ginocchia, giungendo le mani. «Lei ha detto una volta che sembravi un pulcino bagnato, ricordi? Ho pensato che volesse consolarti e farmi capire che ero stata io a ridurti così. Ma non me n’ero mai accorta. Pensavo che tu fossi invincibile.» Lui non rispondeva mai a questo tipo d’argomenti.
«Ora so che aveva ragione.», sussurrai.
«Adesso è troppo tardi» disse lui. La stanza svanì nel buio.
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Lodovico
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Re: Gara 66 - Bando e racconti

Messaggio da leggere da Lodovico »

Tra i Galli e le peperonate
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Pesante. Quest’armatura è pesante. Li vedo davanti a me. Spade immense, bicipiti scintillanti sotto il sole di Bretagna, elmi cornuti (e permettetemi il termine) e occhi assassini. Me lo ha detto il centurione: “a morte i Galli”. La mia lama ne richiede il sangue. Mi celo dietro a un cespuglio e li attendo.

Eccoli. Passano davanti a me becchettando il terreno. Il loro allevatore pare non essere presente, la fame è tanta. Un galletto alla brace è più di ciò che mi sarei aspettato per cena. Esco da dietro il cespuglio e mi slancio dietro gli animali.

E sono immensi. Dal basso appaiono mostri preistorici. Denti affilati, mandibole esagerate, dieci, o, forse, venti volte più alti di me. Con un terrore, mediato dalla paura, ne osservo i movimenti. Sono rettili, come dei serpenti fuori misura.

Li sento. Si agitano sotto di me. Non ho il coraggio di osservare. Il movimento viscido e continuo me li annuncia. Quasi spaghetti, quasi linguine, ma viventi, pronti a slanciarsi sul mio corpo. Avverto la mancanza di zampe. O forse sono troppe. Sono, non oso nemmeno citarle…

Otto. Sono otto le zampe che mi sento addosso. Otto. Gli insetti ne hanno sei. E me ne sento otto sulla pelle. I ragni ne hanno otto, ma quanto può essere grande un ragno? Così grande? Gli occhi chiusi non vogliono sapere quale creatura stia passeggiando sul mio ventre, quando…

Vola, si avvicina. le torri gemelle lo attendono. Sono lì. Pronte ad accogliere un aereo, come una vagina è pronta a ricevere... Quello. Quello che la penetra, la invade, la sfond...

Il grattacielo è vicino. Mi slancio. Lo raggiungo senza problemi. Il costume rosso mi ricorda i miei superpoteri. L'Uomo Ragno danza, come tra le erbe di un prato, in mezzo ai palazzi della città. Sono io l’Uomo Ragno, che non può cadere.

Mi è caduto. Il cemento comincia ad asciugare. Cerco un altro mattone prima di dovere rifare il pezzo di muro. Ne trovo uno a distanza di una mano. Lo appoggio sul morbido cemento grigio. Si adatta come un pisello nella patata. Perfetto.

Ti odio, Carlo. Mesi e mesi per entrare al casting di Masterchef e, ora, per una patata cotta troppo poco, mi elimini? Carlo Cracco, ficcati le tue patatine dove dico io insieme al tuo Living, la tua cucina e il tuo cesso.

Sudore.
Rutto.
Odore di peperonata.
E poi la luce...
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Daniele Missiroli
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Libero

Messaggio da leggere da Daniele Missiroli »

Libero

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In terza liceo ho avuto un blackout di un anno.
Non rammento niente di quel periodo. La scuola, gli amici, la vita... buio assoluto!
Ricordo solo il sogno: lo stesso tutte le notti.
Rientravo da scuola, trascorrevo il pomeriggio con la nonna facendo i compiti e la sera tornavano i miei genitori. Entrambi!
E quando mi svegliavo, ero convinto che fosse così.

Questa storia è andata avanti per mesi, e ogni volta c’era un particolare diverso.
Lui che mi portava il nuovo tex.
Lui che mi allungava un deca per il motorino.
Lui che firmava la pagella del trimestre.
Tutte cose successe davvero… ma "prima".
Una battaglia infinita fra il mio inconscio e la realtà. E non sapevo come vincere.
Ci mettevo un po’, dopo essermi svegliato, a rendermi conto che era stato un sogno.
Quando lo capivo, trattenevo le lacrime con rabbia. Non ero più un bambino.
Quel momento distruggeva la mia giornata e attendevo con angoscia la notte seguente.
Poi ci fu un cambiamento.

Quella volta, dopo cena, ci sediamo in salotto a parlare.
Del suo lavoro, del mio futuro, di tutte le cose che non ci siamo detti in sedici anni.
Restiamo così per ore e ore e ci dimentichiamo anche dell’esistenza della tivù.
Una sensazione di pace e tranquillità che non ricordo di aver mai provato.
Alla fine è così tardi che ci addormentiamo entrambi sui divani.
Mi sveglio l’indomani, tutto indolenzito, e lo vedo ancora lì.
È giorno adesso, ma lui è davanti a me e si stira, mentre scuote la testa e mi fa un sorriso complice.
Io invece devo avere una faccia strana, perché mi chiede se ho avuto un incubo.
– Cavoli, sì papà, e che incubo orribile – gli dico a occhi bassi, senza avere il coraggio di continuare.
Dopo una doccia veloce ed essermi cambiato, vivo tutta la domenica con lui presente.
Mi aiuta nei compiti di matematica, laviamo insieme la sua auto, lo guardo anche preparare il pranzo. Nei giorni di festa vuole farlo lui, perché si diverte a cucinare.
Per tutto il pomeriggio giochiamo a carte e poi a scacchi.
Chiacchierando, scherza sulle mie “cotte” e mi dà qualche dritta da “uomini”.
Viene sera: ceniamo e poi guardiamo la tele.
Insieme. Lui, io, mia madre. Siamo una famiglia.
Vado a letto e lui mi augura buona notte.
Come è sempre stato, e sempre sarà, penso.
La mia incredulità evapora come neve al sole, mentre sospiro e chiudo gli occhi, felice.

È mattina adesso, e sono sveglio. Mi guardo intorno, ma non ho dubbi.
Lui c'è e sorrido, ricordando tutto quello che abbiamo fatto ieri.
Questo terribile incubo è finito, penso, mentre mi stropiccio gli occhi.
Poi mi alzo e giro per casa, in pigiama. Controllo… cerco conferme.
E infatti le trovo, perché mia madre ha lasciato tutto come prima.
I suoi abiti, le scarpe, la borsa sulla scrivania.
Ho anche aperto il suo armadio, ma è tutto in ordine, e questo rafforza la mia convinzione.
Ora sono proprio sicuro che lui ci sia ancora.
Eppure...
Eppure sto male, c'è qualcosa che non va in me.
Mi tocco lo stomaco, ma subito scuoto la testa: è qualcos'altro.
Sento nell’aria il profumo del suo dopobarba e sorrido, mentre entro nella camera dei miei.
Appoggio la testa sul suo cuscino e chiudo gli occhi, cercando il suo volto.
Rivivo la giornata che abbiamo passato insieme e gli occhi diventano lucidi.
Per un attimo mi balena nel cervello la folle idea di chiedere a mia madre.
Dai non scherziamo, penso, se le faccio una domanda simile, mi prende per matto.
Vado in bagno, ma il fastidio non diminuisce. Anzi, sale alle tempie. Mal di testa. Nausea.
Che cosa mi sta succedendo?
Esco barcollando e mi butto di nuovo sul letto, ma è inutile. Sto sempre peggio.
Affondo la faccia nel cuscino, ma così mi sento soffocare e devo girarmi.
Ho le vertigini e mi accorgo di riuscire a sentire il battito del mio cuore.
È un battito lento, mentre sento un peso opprimente nel petto che mi toglie il respiro.
Ho il viso in fiamme e sto sudando, ma ho anche brividi di freddo.
Mi asciugo la fronte con la manica del pigiama, cercando una via d’uscita, ma non la trovo.
Non so più cosa fare… anzi no: so cosa devo fare, ma non voglio!
È tutto a posto, ne sono certo.
Stringo i pugni, chiudo gli occhi e poi… poi mi arrendo.

Scendo le scale e vado verso il mobiletto all'ingresso, dove mia madre tiene la foto del nonno.
Cammino a passo di lumaca, strascicando le pantofole. Sono pesanti, non ce la faccio.
Sento pulsare le tempie e i battiti del cuore aumentano ad ogni passo.
Su Fabio, non sei un bambino, controlla. Ho detto controlla! Contr... improvvisamente lo vedo.
La sua foto, accanto a quella del nonno, mi colpisce come una fucilata.
La vista si annebbia e cado in ginocchio, mentre mi copro la faccia con le mani e vengo travolto da un pianto silenzioso.
Non è possibile, non è possibile. Ero sicuro. Questa volta ero veramente sicuro.
Poi tutto il dolore scompare e si trasforma in rabbia.
Mi rialzo inferocito, stringendo i pugni e digrignando i denti.
Ricostruisco subito la sequenza del primo risveglio, nel sogno, che mi ha tratto in inganno.
Sono imbestialito, quando scorgo nello specchio qualcuno che non conosco. Non sono io!
Sei stato davvero bravo questa volta, ma ora basta!
Mando in frantumi il vetro con un pugno e sono libero.
Da quella volta non ho sognato più.
Mai più.
Ilaria Rucco
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Re: Gara 66 - Bando e racconti

Messaggio da leggere da Ilaria Rucco »

La terra dei sogni perduti
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La terra dei sogni perduti era un luogo dove vivevano tante persone che avevano smesso di sognare: ragazzi, uomini, persone anziane, e anche qualche bambino.
Ognuno di loro era lì perché non aveva più un motivo per cui sperare o perché si era talmente legato a un dispiacere che gli aveva cambiato la vita, da non avere più la forza di reagire.
C’era chi aveva perso un lavoro, chi aveva perso una persona cara, chi aveva avuto una delusione d’amore, chi aveva perso o rotto il giocattolo preferito.
In questa terra lontana, il cielo non era azzurro, ma viola, il prato era giallo, il mare rosa, insomma, tutte le cose non erano come dovevano essere.
Tra le persone capitate in questo strano luogo, c’era anche Chiara, una ragazza di 15 anni, che era finita nella terra dei sogni perduti per il dolore della perdita della nonna. Non aveva mai voluto accettare la sua morte, ecco perché andava avanti pensando che la nonna fosse semplicemente in un altro luogo, dentro di sé, però, sentiva sempre quel vuoto, perché quel rapporto quotidiano fatto di parole, di gesti, di abbracci che si era bruscamente interrotto, le mancava terribilmente.
Niente era più come prima, lei era cambiata, anche se faceva di tutto per non ammetterlo, nessuno poteva capire cosa provava, quanto grande fosse per lei quel vuoto incolmabile che sentiva dentro.
Era stanca di sentirsi dire che era assurdo stare male così per la morte della nonna.
—Ma la gente ce l’ha un cuore? — si chiedeva ogni volta che si rendeva conto di non essere capita.
Un giorno, mentre passeggiava nella terra dei sogni perduti, fece un incontro con una persona alquanto bizzarra, un uomo dai capelli arruffati e arancioni e dei grandi occhi verdi.
— Ciao, è la prima volta che ti incontro, cosa ci fai in questo mondo che funziona al contrario? Le chiese l’uomo.
— Ho smesso di essere felice — gli rispose Chiara tutto d’un fiato.
— Perché mai? — le chiese lui invitandola a sedere su una panchina che si trovava accanto a loro —Ti va di raccontarmi la tua storia? —
Chiara rimase per un attimo in silenzio a osservare lo strano uomo, poi si sedette accanto a lui.
— Forza — le ripeté lui per darle coraggio. — Comincia pure —
— Ecco… Qualche mese fa, ho perso una persona molto importante, mia nonna — disse tamburellando le dita sulla panchina — Sai, si dice che quando le persone vanno via improvvisamente lasciano dentro di noi una ferita difficile da rimarginare, perché restiamo con il rimpianto di quello che avremmo voluto dire e fare fino a un attimo prima, anche per me è così, avrei voluto abbracciarla per l’ultima volta, non credo però che questo mi avrebbe aiutata lo stesso ad accettare la sua assenza, perché mi manca vederla, parlare con lei, il farci compagnia a vicenda —
— Capisco. È per quello che sei finita qui allora, quindi hai smesso di sognare già da un po’… Cosa ti spaventa? —
—Ho paura di fare sempre lo stesso sogno, quella di vederla morire ancora, succede tutte le volte e io non ce la faccio, ecco perché ho smesso di sognare — gli rispose quasi angosciata.
— Hai salutato tua nonna prima che andasse via? —
— No, non sono riuscita a farlo, è successo tutto così in fretta — gli rispose lei con un espressione triste.
Quello che Chiara non poteva sapere, era che l’uomo dai capelli arancioni, era lì per aiutare tutti quelli che capitavano nella “terra di mezzo” come la definiva lui.
— Voglio farti un piccolo regalo, chiudi gli occhi — le disse l’uomo sfiorandole poi le tempie.
Chiara si ritrovò così in un grande giardino, che riconobbe subito, perché era quello di casa sua. Lungo il viale delle rose, è così che le piaceva chiamarlo, scorse da lontano la figura di sua nonna, e cominciò a correre per raggiungerla.
— Non ci posso credere nonna, sei proprio tu! —
— Sì amore, sono io — le rispose abbracciandola forte.
— Ho bisogno di dirti una cosa che non sono riuscita a dirti quando sei andata via: ti voglio bene —
— Lo so e te ne voglio tanto anche io, non devi più avere paura di sognare, perché è qui che potremo incontrarci ancora, adesso vai amore mio, svegliati —
Fu così che Chiara lasciò la terra dei sogni perduti e si risvegliò nella sua stanza, riuscendo finalmente a sorridere e a sognare ancora.
Patrizia Chini
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Tocco delicato, di velluto

Messaggio da leggere da Patrizia Chini »

Scala dei turchi.jpg
Scala dei turchi.jpg (34.32 KiB) Visto 4708 volte

Sono consapevole del fatto che prendere il sole, alle tredici in punto di un giorno qualsiasi di agosto, non sia la cosa più salutare, non solo per me ma per tutti… a meno che non si preferisca assomigliare a un arrosticino piuttosto che a un cristiano pallido.
Nonostante questa consapevolezza mi trovo ugualmente sotto il sole a picco, seduta sul mio telo da mare che ho adagiato sulla sabbia finissima di questa spiaggia disseminata di scogli neri, diversi per forma e dimensione.
Mi piace il mare, mi piace ascoltare lo sciacquio delle onde che vanno e vengono; mi piace quando rallentano e anche di più quando si rincorrono veloci. Sono innamorata di questa costa qui, nel territorio di Realmonte, paese natale di mio marito Giuseppe, dove ho trascorso le vacanze estive per tanti anni.
Poi una maledetta depressione, vinta da poco, mi ha tenuta lontano da questi luoghi amati finchè qualche giorno fa...
Eravamo seduti sul divano della nostra casa a Roma e guardavamo la tv.
─Giusè, voglio trascorrere una settimanella giù in Sicilia… ho bisogno di cambiare aria, frequentazioni e altro. Devo cercare di risollevare il mio umore. Temo di piombare di nuovo in quell’incubo.
Così mio marito, pronto a soddisfare ogni mio desiderio, ha prenotato il treno e avvertito i parenti del nostro arrivo. Dopo di che siamo partiti.
Ed eccomi qua, a Realmonte, paese della Scala dei Turchi... una falesia di marna bianca, scolpita dalla natura, unica al mondo dove ti ubriaca la vista mozzafiato e l'imponenza della"scala" ti travolge.
─Portami a Lido Rossello, a quella spiaggetta che mi piace tanto, voglio fare una nuotata. Poi tu risali, puoi andare a salutare qualche amico. Quando hai finito vieni a riprendermi─ proposta autoritaria ma in linea con le priorità di mio marito: prima del mare vengono gli amici.
Un po’ titubante Giuseppe si è prestato.
─Ѐ sicuro che puoi stare da sola?─ mi ha chiesto, prima di lasciarmi, per tacitare i suoi sensi di colpa.
Rispondo con un “Sì” prolungato e anche un po’ scocciato.
─Fra mezz’ora vengo a riprenderti. Fatti trovare pronta…─ conclude mentre mette in moto l’auto sgangherata messa a disposizione da un suo cugino benestante.
Ora sono qui. Davanti a miei occhi Rocca Gucciarda, due scogli legati da una sottile lingua di roccia e subito dalla memoria riemerge la leggenda dei due innamorati che, non potendo coronare il loro sogno d’amore, scelsero di morire insieme gettandosi in queste acque cristalline.
Un posto isolato, questa spiaggetta dove vengono ad appartarsi le coppiette in vena di effusioni. In questo momento non ce n’è traccia.
Il caldo è insopportabile. Decido di bagnarmi come programmato.
Mi alzo e mi avvio verso il bagnasciuga.
I miei piedi sono nell’acqua e io già sento un sollievo inaspettato, maggiore e non proporzionato a quel pediluvio appena iniziato.
─Ehi! Stavo morendo e mi sento rinata… queste acque hanno del miracoloso o, comunque, di qualcosa di magico.─ penso ad alta voce.
─Allora? Che aspetti? Fatti una nuotata!─ mi urla qualcuno.
Mi giro. Mi guardo intorno…
─Chi ha parlato?
Nessuna risposta.
─Chi sei?
Rimango in silenzio aspettando la risposta.
Poi cerco di capire con una altra domanda.
─Forse chi ha parlato non si rivolgeva a me?
Azzardo una spiegazione.
─Era un’allucinazione! Le ho avute quando mi hanno imbottito di psicofarmaci...
Dopo qualche minuto la voce riprende a parlare.
─Ti decidi o no?
Mi sto agitando. Sono qui per rilassarmi e invece ancora un po’ di questo stress e precipito nel panico.
─Ehi zia! Ben arrivata! Vuoi un passaggio? Faccio un giro a Rocca Gucciarda.
Filippo, il nipote più caro di mio marito, mi sta chiamando da un pedalò che, uscito da dietro uno scoglio alto, avanza dritto verso di me.
Sorrido. Mi convinco che lo abbia mandato lo zio: prendo fiato e rispondo:
─Grazie Filì. Preferisco farmi una nuotata… chissà che non riesca a raggiungerti. Nel caso mi dai un passaggio al ritorno.
Filippo comincia a invertire la marcia mentre io mi lancio a pesce nelle acque e comincio a nuotare.
Mi stanco subito e mi pento di essermi catapultata in quella impresa al di sopra delle mie forze… ma ormai sono in ballo e mi conviene ballare.
Continuo la mia traghettata.
Sono esausta, cosa facilmente prevedibile. Il pedalò è arrivato e sta completando la sua performance con il periplo dell’isoletta che lo nasconde alla mia vista.
Mi fermo e mi giro sul dorso per fare il morto a galla. Aspetto. Filippo verrà a cercarmi.
─Quando non hai urgenze il tempo corre, ora invece sembra rallentarsi come un gol alla moviola.─ rifletto a voce alta.
Poi urlo:
─Filippo!
Per chiamarlo con tutta la mia forza ho aperto tanto la bocca che un‘onda, arrivata giusto giusto in quel momento, me la riempe di acqua salmastra.
La inghiotto tutta e comincio a tossire, cosa che mi costringe a ingurgitare ancora acqua.
Perdo forza e sangue freddo.
Ho tanta paura.
Panico.
Annaspo senza più controllo!
Appesantita dalle bevute, comincio ad affondare e come il Titanic, una volta persa la posizione orizzontale e superata una certa inclinazione, precipito in un batter d’occhio sul fondale.
Davanti ai miei occhi passano velocemente fotogrammi del film della mia vita…
─Quante cose avrei potuto ancora realizzare!─ penso e scoppierei a piangere solo se le mie lacrime riuscissero a vincere la pressione esterna.
Un flash!
─ Qualcuno arriva a salvarmi!─ mi dico mentre le mie speranze rinverdiscono.
Delusione. Ѐ solo un branco di salpe che mi si è avvicinato e con i suoi riflessi argentei rende più visibile la mia disperazione.
La poseidonia che mi ondeggia intorno, presa a pietà, mi abbraccia e mi accarezza con le lunghe foglie nastriformi.
Il tocco è delicato, di velluto…
─Su, preparati! Hai dimenticato che dobbiamo partire. Il treno per Realmonte è prenotato─ mi sollecita mio marito mentre, per svegliarmi, mi accarezza piano.
─Sai che ti dico? Preferisco la montagna─ sentenzio senza appello.
Ultima modifica di Patrizia Chini il 20/10/2017, 9:43, modificato 1 volta in totale.
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Nunzio Campanelli
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Re: Gara 66 - Bando e racconti

Messaggio da leggere da Nunzio Campanelli »

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Della stessa sostanza dei sogni

Mi trovavo in quella stanza da circa un’ora quando mi alzai dalla scomoda sedia metallica dove mi ero seduto appena entrato e, facendo finta di essere interessato a un quadro appeso alla parete di fronte, cominciai a osservare con attenzione le altre due persone che come me stavano attendendo il loro turno. La disamina ebbe termine dopo qualche minuto, che quegli esseri sembravano anelare solo a mimetizzarsi con il resto dell’arredamento di quello squallido ambiente. Decisi allora di dedicarmi al quadro, eleggendolo unico oggetto della mia attenzione e non più schermo dei miei sguardi sfacciati. Era questo una stampa di modeste dimensioni, sì che ora che m’interessavo veramente a lui, capii di dovermi avvicinare per comprendere cosa volesse raffigurare. Vi era rappresentata una scena inquietante, dove un uomo giaceva addormentato appoggiato a un tavolo, mentre delle creature alate, similmente gufi e altri rapaci, volteggiavano sopra di lui. Una scritta posta in basso a sinistra diceva “El sueño de la razón produce monstrous”. Sulla didascalia in calce era invece scritto “ Idioma universal. Dibujado y grabado por Francisco de Goya. Ano 1797”.
Il nome dell’autore rese chiaro che stavo guardando una semplice riproduzione. Per quanto riguarda il titolo dell’opera, pur non conoscendo lo spagnolo, mi sembrava sufficientemente chiaro. Quella stampa ebbe il potere di catturare la mia attenzione fino al punto di non udire il mio nome pronunciato ad alta voce dall’infermiera. Era il mio turno, e a un secondo richiamo più vigoroso del primo ritornai in me e mi affrettai a entrare nello studio dove ero atteso da un medico. Varcai la porta dell’ambulatorio non senza prima dare un’ultima fugace occhiata all’incisione del Goya.
La visita terminò dopo una mezzora dal mio ingresso nello studio. Più che una visita si trattò in verità di un monologo. Raccontai al medico, un neurologo, dei miei problemi di sonno, del fatto che riuscivo a dormire solo poche ore a notte, e quel poco era popolato da sogni terribili durante i quali ero sempre preda di un’angoscia che poi mi opprimeva per il resto della giornata. Il dottore mi prescrisse delle nuove medicine dicendomi che con quelle sarei stato sicuramente meglio. Con ben poca fiducia, presi la ricetta e feci per andarmene, quando mi ricordai della stampa.
- Dottore, quella stampa là, nell’anticamera…
- Quale stampa?
Strana domanda, visto che era l’unico quadro.
- Quella del Goya.
- Ah, quella. Era del mio predecessore, un collega. Non so perché non l’ho tolta. Mi dica, comunque.
- No, niente, niente. La saluto.
- Arrivederci.
È trascorso quasi un mese da quella visita. Non dormo più. Ho paura a farlo perché il mio sonno è letale. Non per me. Per gli altri. Per tutti quelli che hanno avuto la sventura di contrastarmi, anche per ragioni di poco conto. Non ho capito (forse non ho voluto farlo) quanto mi stava succedendo finché non ho guardato quella stampa nella sala d’attesa del medico. Fu come una rivelazione. La persona addormentata sullo scrittoio ero io, e quelle figure volanti intorno erano gli artefici del male che andavo dispensando. Me ne sarei dovuto accorgere prima, visto che ero stato testimone di fatti inspiegabili con il metro della sola ragione. Ragione che invece avevo soffocato per generare i mostri che in mia vece hanno cercato e trovato vendette da me mai invocate, che hanno fatto strame della carne di quei poveri disgraziati e della mia anima, che nel timore di essere giudicata responsabile di tanto evita di separarsi dal corpo, rendendo vani i tentativi di privarmi della vita.
Non conosco il motivo per cui mi è stato concesso tanto potere, né ricordo il momento esatto nel quale tutto questo ha avuto inizio, ma di una cosa sono sicuro: noi prendiamo ciò che il mondo ci offre, nel bene e nel male, e lo releghiamo nel profondo della nostra coscienza, sicuri del fatto che, se necessario farne riaffiorare una parte, sarà la nostra ragione a giudicare. Ebbene, in me durante il sogno questo processo non avviene.
Non dormo più, dicevo, ma sento che il mio corpo non potrà privarsi ancora per molto del ristoro del sonno. Prima o poi l’alba coglierà il mio corpo inerte giacere addormentato, e allora il mio inconscio sarà libero di procedere alla sua opera distruttiva. Già sento agitarsi dentro di me i mostri da troppo tempo inoperosi, i demoni prodotti dalla mia mente sussurrano alle mie orecchie nenie per farmi addormentare, ma io so già quello che devo fare. Sognerò a occhi aperti, e in quel sogno rinnegherò tutte le creature e i fantasmi dai quali sarà popolato. Essi si avventeranno contro di me, e sarà la mia fine ma non importa. Del resto siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni, e nello spazio e nel tempo di un sogno è racchiusa la nostra breve vita.
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Fabrizio Bonati
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Re: Gara 66 - Bando e racconti

Messaggio da leggere da Fabrizio Bonati »

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Il Supereroe

Daria, io e i bambini stiamo entrando a Divertiland, il famoso parco divertimenti aperto da poco, piazzato in mezzo a dove c'era una volta un nulla cosmico, un spianata di svariati chiometri completamente brulla. In poche settimane sembra diventata un'oasi tropicale, ci sono certe piante rigogliose... Chissà come ci sono riusciti.
Bello, è bello, strutture fantascientifiche, mille diversi posti per mangiare, attrezzato per tutti, dalle donne incinte ai bambini appena nati agli anziani.
Poi al calare della sera, quelle lucine multicolori che corrono annegate nel terreno, spettacolari e scenografiche! I bambini sono estasiati.
Eppure.
Eppure la mia sensibilità da mezzo supereroe, è turbata.
Le lucine mi danno i brividi. Le guardie si aggirano perennemente con aria truce, e giurerei di averle viste trascinare un ragazzetto, che si stava comportando da vandalo, in una zona interdetta al pubblico. Lo stesso ragazzetto, dopo alcune ore, era di nuovo in giro, e sembrava lobotomizzato.
Finalmente la giornata finisce, alla mezzanotte ci sono i fuochi artificiali, che “accendono” una sorta di Albero della vita simile a quella di Expo Milano.
Sono sfinito, non per correre dietro ai bambini, quello è un esercizio che a uno come me sembra allenamento e pure blando. Tutte queste sensazioni fastidiose mi lasciano addosso una stanchezza che assomiglia di più a non voglia di vivere.
Sono sempre stato così, fin da quando ho scoperto di avere i miei superpoteri.
Posso leggere nella mente delle persone, infatti il mio matrimonio va a gonfie vele. Posso vedere cose che voi umani nemmeno immaginate. Corro alla velocità del suono, e posso scaldare una scodella di latte solo tenendola tra le mani. Sono così dall'età di 14 anni, quasi che con la pubertà mi si sia accesa la scintilla del supereroe.
Mio padre mi ha sempre detto di tenere per me questi poteri, di usarli per aiutare gli altri, ma con discrezione. Come se fosse facile.
Finalmente riporto a casa la famiglia e vado a dormire. Ma per poco.
All'alba sono di nuovo nei pressi di Divertiland, ma questa volta lascio la mia autovettura lontano, e grazie alla supervelocità aggiro la chilometrica recinzione del parco, per ritrovarmi alle porte di servizio.
Subito vedo qualcosa che non va: vicino a una porta di ferro, c'è una coda di esseri umani, che definire derelitti è quasi riduttivo. Sono tutti vittima di svariate forme di menomazioni, di età molto variabili e di entrambi i sessi. Le guardie aprono la porta, abbrancano uno di questi poveretti trascinandolo dentro di peso, sganciano dei soldi all'accompagnatore, e richiudono la porta. Dopo qualche minuto, riecco i gorilla, e via così.
Solo a vedere questa cose, mi si rizzano tutti i peli, e qui di super non ho nulla, è una reazione umana.
Mi alllontano un pochino, scavalco la recinzione, evitando gli allarmi da dilettanti che trovo, e vado a vedere che fine fanno quei poveri esseri umani. Sto sudando oltremisura, e non penso sia il clima. Ho una bruttissima sensazione. Un gruppo di derelitti viene condotto verso una lunga fila di docce stile spiaggia e costretti a denudarsi, e chi a causa delle menomazioni non è in grado di svestirsi da solo, è aiutato dai gorilla con mala grazia. Per fortuna dalle docce esce acqua, temevo già qualche sorpresa in puro stile campo di concentramento.
Nudi come vermi, i poveretti vengono guidati verso una strana macchina, e costretti ad entrarvi. Da questa macchina esce solo un tubo, che va verso...
Orrore!
I poveretti, dopo essere stati introdotti a forza, alla chiusura della porta cacciano un urlo disumano e dopo pochi secondi vengono trasformati nelle lucine che corrono a lato delle stradine per tutto il parco!
La mia costernazione è al limite, quando scopro che a sorvegliare quell'infame mercato c'è un tizio, fatto di pietra come La Cosa dei Fantastici Quattro, seduto su di un trono, che lancia scudisciate elettroniche tramite una sorta di frusta.
Seguo l'andamento per un bel po', sono raggelato, non riesco a razionalizzare, poi vedo su un megaschermo l'inizio di una proiezione. Viene spiegato alle “volontarie” future lucine cosa li aspetterebbe, se provassero a ribellarsi. Il filmato prosegue con la vista di un tizio, che si era spacciato per candidato alla macchina delle luci allo scopo di interrompere tale scempio, catturato dai gorilla, e sottoposto a un trattamento tutto fuori che piacevole, che l'ha trasformato in ciò che è attualmente. Al termine della “giornata lavorativa”, La Cosa viene sottoposto al procedimento inverso, al solo scopo di torturarlo ogni giorno, e poi incatenato e lasciato li a struggersi, prostrato nel fisico e nell'animo.
Sto valutando quali azioni intraprendere, questo assurdo processo deve finire. Nemmeno tutti i dittatori della storia, uniti, avrebbero architettato una mostruosità simile.
A un tratto le guardie corrono verso di me, l'uomo di pietra deve avermi sentito, forse ha dei poteri anche lui. Cerco di fuggire ma sono raggiunto da una scudisciata della frusta, e cado a terra semisvenuto.
Mi rendo conto confusamente che le guardie mi hanno spogliato, lavato e adesso cercano di inserirmi nella macchina delle lucine Mi sveglio del tutto, mi dimeno come un pazzo, dovrebbe essere facile liberarmi, ma non ci riesco, sento bruciare la pelle delle braccia. Capisco allora che La Cosa mi sta tenendo fermo con la sua frusta elettronica, e le guardie hanno gioco facile a condurmi dentro la macchina infernale. Ormai sono dentro, la porta si sta chiudendo.

E mi sveglio.
Daria non c'è?!?!
Ah, si, mi ha lasciato due anni fa per mettersi con la professoressa di matematica di nostro figlio.
Sento le lenzuola fradicie, tremo come una foglia. Sono completamente zuppo di sudore, e non solo. Mi sono orinato addosso, questa volta.
Mi alzo dal letto e, come mi ha ordinato di fare lo psicologo, da un anno circa, scrivo ciò che ricordo: incubo del Parco Divertimenti, ventitreesima replica – orinato nel letto.
Buongiorno.
Ida Dainese
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Re: Gara 66 - Bando e racconti

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Vita di un sogno

Con passi lenti, che calcano il tappeto senza fare rumore, cammino lungo il corridoio in cerca della porta giusta.
Sono finalmente vicino alla mia ragazza. Ho cominciato a sentire la sua presenza quando era ancora un soffio gentile, un’eco che mi solleticava l’udito e cercava di raggiungermi nella nebbia. Il suo pensiero mi accarezzava dandomi confini sempre più solidi. È da un po’ che mi sta chiamando ma io non ero ancora in grado di andare da lei, mi sentivo debole, sfocato, incompleto.
Oggi invece, all’improvviso, ho sentito l’urgenza di muovermi, di raggiungerla, di vederla.
Non sono mai stato qui eppure ho trovato con facilità la strada e percepisco il legame che c’è tra noi come un filo sottile ma ben resistente.
Davanti alla sua porta mi fermo esitante, incerto se bussare e disturbarla o annunciare in qualche modo il mio arrivo, pronunciando il suo nome. Appoggio le nocche all’uscio e il mio tocco basta a muoverlo perché è socchiuso.
Entro, silenzioso.
Lei è seduta di spalle, lo schermo del computer crea un alone luminoso intorno alla testa e alla schiena. Non è stupita dal mio arrivo e non si volta, concentrata sulle dita che scorrono veloci sui tasti. Quel lieve, continuo muoversi delle mani e il ticchettio della tastiera sono ipnotici.
Mi guardo attorno, in cerca di qualche particolare che me la faccia ricordare, di qualcosa che mi rammenti perché io la conosca così bene, perché abbia trovato il suo richiamo così affascinante.
I libri sono in ordine sugli scaffali, la fioca luce di una lampada illumina una sua foto, il letto nell’angolo non è ancora disfatto.
Presa dall’ispirazione starà al computer per tutta la notte, finché non avrà finito.
Sbircio da dietro le spalle e i suoi pensieri mi appaiono sullo schermo in frasi ben curate: sta scrivendo un racconto. Riesco a leggere la descrizione di una città del futuro, dove il traffico ordinato non intasa le grandi strade urbane che corrono moltiplicate in diverse altezze attorno ai grattacieli della metropoli. Praticamente ti sporgi dal balcone del novantesimo piano e le auto ti passano tranquillamente sotto il naso; non so che carburante usino ma almeno pare non facciano rumore.
Non lo so, forse ci vuole la sua fantasia, ma io non ci vivrei in una città come quella. Io amo i grandi spazi silenziosi, i deserti, le lunghe strade vuote che non portano da nessuna parte e non so nemmeno il perché.
Mi sposto di fianco e osservo il foglio alla sua destra, dove ha lasciato qualche annotazione sui personaggi e sulla trama della sua storia. Allungo le dita ma lei stacca una mano dalla tastiera e me le allontana.
— Non toccare. — mi dice.
Alzo le spalle, rassegnato e mi sposto ancora. Ora le sono di fronte, e la vedo bene in viso. Lo schermo la illumina dando al suo volto una sfumatura azzurrina. È senza età, semplicemente bella e sento di volerle bene. Sono contento di essere in quella stanza, vicino a lei, sono felice che mi abbia chiamato, desiderato che fossi lì con lei.
Alza lo sguardo e mi sorride. Più i suoi occhi scorrono su di me e più io mi sento forte, un’intensità che si addensa dentro di me e mi fa sentire vivo.
— Ti amo. — le dico.
— Ti amo anch’io. — risponde e poi torna a scrivere.
Sento il battere del cuore dentro di me, l’emozione di starle vicino e di sapere che mi ricambia. Sbircio sul foglio delle annotazioni e, anche a rovescio, mi accorgo che c’è il mio nome. Sta scrivendo di me, dunque, a passeggio per una caotica città del futuro. Chissà in quale avventura sta cercando di coinvolgermi.
Inspiro con forza, riempiendomi i polmoni e il mio torace si allarga. Sono un uomo alto e forte e so muovermi in silenzio, potrei fare il killer in qualche storia noir, sparare in un vicolo scuro e dissolvermi insieme all’arma usata. Magari non con questa lunga tunica bianca, che indosso solo perché a lei piace tanto.
Forse mi legge nel pensiero perché mi pare di averla vista sogghignare; nella sua narrazione non sono contemplati killer in tuniche candide.
Vado vicino alla finestra e la apro del tutto; è ancora buio e si vedono solo le luci dei lampioni sulla strada in basso. La notte estiva è breve e presto verrà l’alba.
Mi siedo appoggiando una gamba al davanzale, girato verso di lei. Penso alle molte strade nella storia di fantascienza che sta scrivendo e al deserto silenzioso che continua ad affiorare nei miei ricordi; il bagliore accecante del sole, il lembo della tenda che sbatte nel vento, il fruscio di palme ombrose.
— È da lì che vieni.
Mi guarda, con le mani sospese sulla tastiera.
— Vengo dal deserto? E come sono arrivato qui?
— Con una macchina del tempo, naturalmente.
— Stai scrivendo questo? Io che viaggio nel futuro?
Sorride e resta a fissarmi con un’aria sognante senza rispondermi, ma la nostra sintonia ormai è tale che vedo con chiarezza il mio ruolo nella sua storia e anche i miei ricordi si sono fatti ben definiti. Ora so da dove vengo, perché sono qui, perché mi sento legato a lei. Sono un suo sogno.
— Davvero mi ami? — le chiedo.
— Sì, fin dal primo momento in cui ti ho immaginato.
La sua emozione mi riecheggia dentro. Esisto perché lei mi ha voluto. Ha immaginato per me un passato, un presente e un futuro. Mi ha reso concreto e vero con le sue parole ed è il momento per me di entrare nel racconto che sta finendo di scrivere.
Fuori il cielo si sta rischiarando e sta sorgendo il sole. Le sue dita hanno ripreso a battere sui tasti le ultime frasi. Una pausa, mi guarda di nuovo, poi torna a scrivere. Anche senza vederlo so che sullo schermo si sta formando la parola “fine”.
Mi spengo nella luce dell’alba, vivo dentro la sua storia.
Ultima modifica di Ida Dainese il 16/10/2017, 17:28, modificato 1 volta in totale.
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Michele
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Re: Gara 66 - Bando e racconti

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L'OROLOGIAIO

L’uomo macchina cigolando mi fa cenno di entrare. Oltre la porta centinaia di orologi adornano una stanza senza finestre. In fondo, dietro un piccolo banco, l’uomo orologio ansima e sbuffa mentre armeggia con ingranaggi molle e pendoli. Sulla sua testa pende un grosso orologio e un cartello su cui è scritto “l’OROLOGIAIO”. Mi avvicino, le lancette sulla sua faccia girano convulsamente con un ticchettio irritabile: Tic Tac, Tic Tac, Tac Tic, Tac Tic. Ormai sono a pochi centimetri, l’uomo orologio si ferma, mi fissa e con gesto plateale caccia dal taschino un orologio, e mentre me lo mostra esclama “Mi dispiace figliolo, il tuo tempo è finito”. Vorrei replicare ma sono immobilizzato, il quadrante dell’orologio si avvicina sempre di più o sono io che mi rimpicciolisco, tento di scappare ma questo mi avviluppa e cado fra ingranaggi e molle e mentre tutto diventa nero l’ultima cosa che vedo sono le lancette che indicano mezzogiorno o forse mezzanotte.

Mi sveglio, come ogni volta, il tic tac è ancora nella mia testa ma pino piano sfuma come l’oscurità che mi circonda. Sono nella mia camera, appena distinguo le prime forme mi alzo, mi muovo piano nella semioscurità. Raggiungo il bagno e accendo la luce, il volto riflesso nello specchio mostra quello che sono, un uomo con più rughe che dita e qualche capello bianco: sopravvissuto ad un matrimonio due figli un divorzio e un principio di infarto, e vuoi davvero che mi preoccupi di uno stupido sogno? Eppure sono giorni che il sogno si ripete, non tutte le notti ma troppo spesso per non rendermi inquieto, dovrei parlarne con qualcuno, forse con uno strizza cervelli, domani lo farò, mi ripeto, e con questa promessa mi rimetto a letto e mi addormento.

In realtà non ne parlai con nessuno, ne il giorno dopo, ne in quelli successivi. Il sogno non ricorreva più così spesso, anzi, quando non accadeva ero più preoccupato di quando sognavo, se il mio tempo era finito allora preferivo che qualcuno me lo ricordasse tutti i giorni per i prossimi cento anni almeno. Ma qualcosa cambiò, e fu nel giorno in cui, tornando prima dal lavoro, trovai la strada sbarrata da un cantiere. Ora da casa al lavoro sono poche centinaia di metri che di solito percorro a piedi, ma fare lo slalom tra operai, buche e mezzi da lavoro non era affatto incoraggiante. Decisi di evitare tutto ciò deviando per il centro storico della città, avrei allungato ma l’idea mi rilassava, sapevo che a quell’ora il centro era quasi deserto, e poi, un sole tiepido settembrino e un cielo blu mi avrebbero accompagnato senza intoppi meteorologici. Era proprio come lo ricordavo, le stradine e gli anfratti dove da ragazzini giocavamo o ci nascondevamo dopo aver fatto i dispetti ai passanti. Altri tempi. Camminavo con la testa fra i miei ricordi giovanili che quasi non feci caso all’uomo appoggiato al muro, quando giunsi a pochi passi l’uomo macchina mi osservava. “Ei!” gridai, ma l’uomo aveva già attraversato la strada con cigolii sommessi e dileguato in una delle traverse laterali. Lo segui quasi correndo gridandogli di fermarsi. Oltre il muro era sparito. Accelerai il passo, ma dell’uomo nessuna traccia, sbucai su un piccolo spiazzo dove un dedalo di vicoli si diramavano in tutte le direzioni. Restai curvo cercando di riprendere fiato, cos’è che diceva con insistenza il dottore? “Eviti sforzi e affaticamenti, il suo cuore non è più quello di una volta”. Dell’uomo macchina nessuna traccia, un dubbio si insinuò nella mia testa, lo avevo realmente visto o stavo solo sognando? O semplicemente mi ero fatto suggestionare dal sogno e avevo scambiato un passante qualsiasi nell’uomo macchina? Qualcosa non quadrava e mentre cercavo di darmi una risposta razionale mi resi conto di essermi perso, non ero mai stato da quelle parti, nemmeno da piccolo, porte e finestre erano sbarrate, palazzi sudici incombevano su di me rendendomi piccolo e insignificante. Cercai di trovare una via d’uscita e quasi non ci feci caso, ma poi la vidi, l’insegna, “l’OROLOGIAIO”, e di fianco un orologio che pendeva su una porta a vetri. Il primo impulso fu quello di fuggire, ma poi entrai deciso. Decine di orologi adornavano una piccola bottega, e in fondo, dietro il suo banco da lavoro, l’uomo orologio armeggiava con ingranaggi molle e pendoli. Gli mancavano le lancette sul volto ma era lui. “Do un’occhiata” dissi, cercando di mascherare la mia sorpresa. L’uomo borbottò qualcosa, ma io era già fra gli scaffali. Osservavo le decine di orologi ma tenevo sotto controllo l’uomo al banco, era proprio come l’uomo orologio del mio sogno, basso e tarchiato con un paio di baffi neri simili alle lancette di un orologio. Non c’erano dubbi, stavo impazzendo. E mentre mi arrovellavo per capirci qualcosa lo vidi, l’orologio da taschino, lo stesso del sogno, era sistemato in una vetrina che si affacciava sulla strada dal lato opposto all’ingresso. Allungai la mano per prenderlo. “Quello non è in vendita.” sobbalzai e nel voltarmi mi trovai faccia a faccia con l’uomo orologio, allungò una mano e prese l’orologio, “e’ rotto” replicò, “vede non si apre”. “Non importa lo compro lo stesso” dissi, mentre mettevo mano al portafoglio”. “Non c’è prezzo per questo” sospirò, “ora se vuole scusarmi devo chiudere”. Depose l’orologio in vetrina e mi accompagnò alla porta. Non replicai ma ero deluso, avrei voluto quell’orologio, forse solo così avrei dato un senso a tutto. Girai l’angolo e mi fermai davanti alla vetrina, l’orologio era lì, appoggiato su un panno verde, solo una sottile vetro ci divideva. E fu in quel momento che decisi di fare una cosa che nella mia vita non avevo mai fatto. Oltre il vetro l’uomo orologio era scomparso nell’oscurità della sua bottega, mi guardai intorno, e a pochi passi vidi una pietra quasi messa li apposta, la presi e la scagliai contro la vetrina che esplose in piccoli pezzi. Afferrai l’orologio e scappai via, le urla dell’uomo orologio echeggiarono tra i vicoli, poi un altro rumore si sovrappose, era il cigolio dell’uomo macchina che mi inseguiva, ma non mi voltai a guardare. Correvo come quando da ragazzino mi nascondevo tra questi muri, provavo una felicità controversa, quasi ridevo mentre l’uomo macchina non riusciva a tenere il mio passo, tra queste strade da piccolo io ero il più veloce, la vita di quegli anni scorreva come un film davanti ai miei occhi. Lasciai la parte vecchia della città, e nonostante fossi ormai al sicuro non mi fermai. Ma qualcosa dentro di me si ruppe, il film della mia vita accelero in un fiume di immagini scomposte e sbiadite. Caddi a terra senza provare dolore, l’orologio volo via rotolando sull’asfalto e si aprì con un clic, prima che il mio cuore si fermasse definitivamente vidi le lancette ferme a mezzogiorno o forse a mezzanotte.
La ricerca ossessiva del consenso crea mediocrità.
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