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Ricordo la prima volta in cui sono uscita davvero con un ragazzo. Si chiamava John e aveva diciassette anni; io quattordici, compiuti da meno di due settimane. E forse ero un po' piccola per accettare l'invito di un ragazzo più grande; e anche la mamma e la nonna ne avrebbero avute da ridire se l'avessero saputo e non mi avrebbero mai dato il permesso di uscirci assieme. Mi pareva inoltre incredibile pensare che un ragazzo bello come John, studente senior alla Ramapo High School e quarterback della squadra di football, popolarissimo nella sua scuola e circondato da amici e belle cheerleaders provenienti quasi tutti da famiglie benestanti, potesse interessarsi a una ragazza come me, che non mi sentivo nulla di eccezionale e appartenevo a un contesto sociale decisamente più modesto rispetto al suo; tanto da non potermi permettere neanche un misero cellulare, magari di seconda mano, come molte mie coetanee si vantavano di possedere. Anche se ho il sospetto che proprio qualcuna di loro, ipocrita e bugiarda, avesse sparso in giro pettegolezzi su di me, etichettandomi come una ragazzina facile da adescare e altrettanto pronta a "fare certe robe". Ma in realtà, tutte le smancerie e moine con cui all'epoca mi atteggiavo verso i ragazzi, anche più grandi, erano solo un modo per emularle e mascherare la mia timidezza, perché di sesso, a livello pratico, non ne sapevo in effetti un granché.
Pianificai ogni dettaglio di nascosto dai miei, e in quel tardo pomeriggio dell'ultimo sabato di maggio 2004, con il cuore che già mi sussultava in modo insolito per via della tensione e l'emozione di quell'attesa, andai, con la solita scusa dei compiti di scuola, a casa della mia amica del cuore, l'unica a cui potessi confidare tutto e realmente fidarmi: Camilla, compagna di banco ed entrambe "freshman" nella più modesta e popolare Clifton High School, abbastanza cicciottella, coi capelli rosso acceso e un viso punteggiato di lentiggini. Piuttosto buffa a vedersi, ma molto sveglia e simpatica, e un po' sfigata con i ragazzi. E verso ora di cena, sempre fingendo, avrei telefonato da un apparecchio pubblico per avvisare i miei che sarei rimasta a dormire da lei quella notte. Andai a casa sua, poiché fortuna volle che sua madre, la signora Charlotte, separata dal marito come la mia, aveva un impegno urgente di lavoro, per l'appunto quella sera, e perciò sarebbe stata fuori dai piedi fino a tardi, dandomi tutto il tempo di muovermi con calma e un comodo alibi a cui tutti avrebbero facilmente abboccato. Con un risolino malizioso, scaravoltai dallo zaino il vestito, gli altri indumenti e tutto il resto delle cose che ero riuscita a procurarmi, e iniziai, aiutata da Camilla, a prepararmi per quella serata che sentivo come la più importante della mia vita.
Indossai un Little Black Dress, così lessi che si chiamava il modello sul cartellino, con una gonna plissettata in ampi strati di tulle trasparenti e neri, una balza bianca e decorato dappertutto con piccolissimi punti di paillettes luminosissimi, tanto da sembrare un piccolo cielo stellato tutto per me se ruotavo su me stessa. Vero, la scollatura del bustino a V era un po' audace e schiacciava sul petto lasciando intravedere la conca dove si accostavano i miei esili seni. Nulla però di troppo sconveniente da non poter essere indossato. Perché assolutamente glamour! Tenuto in condizioni perfette e mi sembrava un sogno averlo trovato, con i risparmi delle paghette messi da parte, a un costo così basso in un thrift shop, a cui abbinai dei collant ambrati e velatissimi, che quasi si fondevano con la mia pelle creando un disinvolto effetto nude, e scarpette nere in pelle lucida, lo stesso economiche, ma di buona fattura e adatte per il ballo.
«Forse è un po' troppo attillato, non credi?», chiesi a Camilla, voltandomi di spalle per farmi allacciare la zip.
«Ma no! Ti sta benissimo! Inoltre, sei tu a portarlo, non io! Perché se fosse stato della mia misura, avrei poi potuto benissimo anche riciclarlo come tenda da campeggio per una spedizione antartica!», scherzò lei, scoppiando a ridere e alzando gli occhi al soffitto per scuotere la testa in modo giocoso. Per nulla dispiaciuta che io fossi di circa tre taglie più piccola di lei. E, dopo una breve pausa, con un complice sorriso, aggiunse: «Ricordi l'ultimo film che abbiamo visto assieme? La protagonista aveva un vestito proprio simile!»
Annuii, cercando di non arrossire, e frattanto che lei mi aiutava anche a infilare i collant e le scarpette, risposi: «Sì, era fantastica!»
Mi sistemai poi bene i miei lunghi capelli, stirandoli con la piastra. Qualche colpo di mascara sulle ciglia, kajal a delineare gli occhi, un velo di gloss sulle labbra, una leggera spolverata di blush sulle guance, due gocce di YSL Libre, e completai il mio look con un sottile braccialetto d'argento e degli orecchini di perle, sbrilluccicanti appena sotto i capelli, e una pochette nera, non mia, ma rubandola temporaneamente dal guardaroba della mamma di Camilla.
«Pronta per la magia?», domandò Camilla esaminandomi coi suoi grandi occhi nocciola da capo a piedi.
«Più che pronta!», rintuzzai, sentendomi già una star.
E lei, silenziosa, mi accompagnò, mano nella mano, lasciandomi sola davanti allo specchio. Mi guardai perplessa, perché il riflesso che mi restituì era incredibile. La ragazza che mi fissava non sembravo più io. Diversa eppure la stessa. Sembravo un'adulta. A quel punto, un sorriso si aprì sulle mie labbra e bisbigliai piano tra me: «Sono bellissima!»
John arrivò quella sera sotto casa della mia amica clacsonando a bordo di una roboante cabriolet rossa fiammante, rossa come i capelli e la faccia di Camilla, in quel momento verde d'invidia, presa a noleggio – come lui mi raccontò in seguito – proprio per quella occasione, e portandomi un mazzo di fiori, un mix di margherite e gerbere, molto allegro e colorato. Andammo a una festa da ballo a Passiac, al The Garden Vista Ballroom. Un palazzo imponente con la facciata in mattoni rossi e una maestosa scalinata per accedere all'ingresso; all'interno, invece, luci soffuse ovunque creavano un'atmosfera intima e accogliente, mentre note flautate sembravano come sospese nell'aria. E il salone era più splendido di quanto io avessi mai potuto immaginare: un soffitto altissimo e affrescato con magnifiche decorazioni e rilievi, sfolgoranti lampadari di cristallo e pareti rivestite da pannelli di legno e ornate da tendaggi e broccati; e il pavimento, in lucido parquet, si apriva su un'ampia pista circondata da tavoli fastosamente allestiti, dove le coppie si muovevano a ritmo di danza. Mi fermai, girando su me stessa, per ammirare ogni più possibile dettaglio, rapita da così tanta bellezza.
E ballammo, io e John, in un turbine di musica fino alle tre del mattino, passando tra il ritmo di un latino-americano, un rockabilly e uno slow foxtrot. E io mi divertii un mondo! Pure John fu bravo con me perché, a dispetto delle voci malevoli che giravano su di lui, si rivelò essere un timidone taciturno e alquanto impacciato; e non ci fu da parte sua né un palpeggio né una stretta maliziosa. Insomma, nessuna avances. Ma c'era un bel riflesso nei suoi occhi azzurri, e fu fantastico quando, verso la fine, rimasi abbracciata a lui con la testa poggiata sul suo petto e sentii la sua mano carezzarmi i capelli e in uno orecchio mi sussurrò che ero bella, mentre Beth Orton dalle casse acustiche in sottofondo cantava It's not the spotlight. In quegli istanti mi sentii elettrica e felice come non mai mi era capitato di esserlo in vita mia prima di allora. Di una felicità che mi catapultava d'improvviso in una fiaba di una piccola principessa, nella quale ogni cosa che vedevo, ascoltavo e pensavo sembrava risplendere sotto la prospettiva di una luce completamente diversa, e in cui ogni mio sogno, se l'avessi voluto, avrebbe potuto davvero avverarsi.
Poi la favola finì. Era all'incirca l'alba nel momento in cui mi stava riaccompagnando a casa, e probabilmente lui si aspettava che tra noi potesse succedere qualcosa in auto, sperando, può darsi, che iniziassi io, stuzzicandolo, a prendere l'iniziativa. Ma, durante il lungo tragitto da quel locale verso casa, non accadde praticamente nulla. Le uniche cose che capitarono furono che dovette fermarsi due volte: una per farmi fare pipì, abbassata dietro un cespuglio; l'altra per farmi vomitare, perché, nonostante il divieto della nostra giovane età, avevamo bevuto qualche punch e un paio di shortini grazie a una generosa mancia di John, e io non ero abituata a bere alcolici. Mi infilò pure due dita in gola per stimolarmi e col mio vomito gli sporcai le scarpe, la manica della giacca e il polsino della camicia. Una puzza terribile! Che schifo! E quando arrivammo a destinazione e sull'uscio di casa, sempre della mia amica, lui suonò il campanello per farci aprire, stando magari in attesa di un mio invito a entrare o che almeno non lo lasciassi andar via senza neppure un bacio.
Ma appena chiusi gli occhi e lui mi fasciò i fianchi e io protesi le labbra a cercare le sue, avvolta da un intenso calore confuso ai brividi che mi scivolavano lungo la schiena e alla pelle d'oca, come quando fa molto freddo, in un tremore, di paura e d'ebrezza, che mi afferrava tutto il corpo in quella piccola attesa per quello che in assoluto sarebbe stato il mio primo vero bacio dato a un ragazzo, sentii al mio lato la maniglia abbassarsi in un rapido cigolio e la porta spalancarsi di botto. John, di sobbalzo, mi lasciò; io strabuzzai gli occhi dallo spavento e voltandomi vidi Camilla in pigiama, con la faccia più bianca del fantasmino Casper, che mi fissava anche lei sbigottita. Immediatamente dopo, dall'ombra alle sue spalle, sbucò un energumeno alto quasi sette piedi. Era mio zio, il fratello di mia mamma, che era andato a cercarmi perché io, sopraffatta da troppi pensieri, mi ero dimenticata di avvisare i miei che si erano giustamente preoccupati del mio ritardo; e lui, avendo messo sotto torchio la mia amica, aveva scoperto la storia del mio appuntamento segreto e della festa da ballo. Le sue pupille nere scintillavano di rabbia: «Dove diavolo eri finita? Tua madre e la nonna, per colpa tua, sono state male tutta la sera!», mi urlò e con un gesto brusco mi agguantò il braccio e strattonandomi, con una rapidità incredibile, mi inghiottì dentro casa con uno sbalzo, scaraventandomi in un tonfo sordo col culo a terra. E poi, fermandosi sulla soglia con la sua sagoma imponente, si ritrovò faccia a faccia con John, che tentava invece di avanzare, entrare e, balbettando per la paura, cercava di giustificarsi in qualche modo. Ma lo zio, sordo a ogni sua parola, mandandolo affanculo e apostrofandolo brutto stronzo e figlio di puttana, gli sbatté la porta con una tale violenza sul grugno da rompergli l'osso del naso. Ricordo ancora, anche se io nel frattempo, presa dal panico, mi ero precipitata a nascondermi sottochiave nella camera di Camilla al piano di sopra, ma spiavo ogni cosa dalla finestra, l'urlo che diede e tutto quel sangue che gli usciva. Vidi poi John salire in auto, sbattendo la portiera e bestemmiando copiosamente; avviarla, partire, e il rombo del motore che scemando si allontanava; mentre il trambusto delle voci dal piano inferiore andava anche lui sempre più attenuandosi in un silenzio che mi suscitava dentro non poca inquietudine, fino a quando, non oltre dieci minuti, qualcuno bussò alla porta della stanza dove mi ero rinchiusa.
Pensai fosse la mia amica e corsi ad aprire; invece, mi trovai di fronte ancora lo zio, che mi sovrastava molto con la sua statura. Aveva sulla faccia un'espressione furiosa e accanto a lui c'era la signora Davies, la madre di Camilla, in camicione e cuffia da notte per tenere in ordine i capelli. Anche lei mi guardava con un'aria dispiaciuta per quanto accaduto, ma nel contempo più indulgente a giustificare quella che, tutto sommato, era stata solo una bravata da adolescente. Poi, malgrado il viso teso, lo zio si abbassò leggermente sulle ginocchia, mi scosse delicatamente le spalle con entrambe le mani e domandò premuroso: «Quel tipo ti ha forse toccato? Perché se è così…» Non gli diedi il tempo di finire la frase e dissi: «No, niente!»
«Dici questo solo perché gli vuoi bene, e sei tanto stupida da pensare che lui provi lo stesso per te?» La signora Davies a quel punto abbassò la testa, fissando le proprie mani strette sulla pancia; e io, per ritrosia – non verso mio zio, ma più per un mio senso di pudore e impotenza di fronte al sospetto di quelle cattive parole che le sue domande insinuavano – andai a stravaccarmi sul letto di Camilla, abbracciai il cuscino e, stanca, non guardandolo più in faccia e con voce senza tono, risposi di nuovo: «No, niente! Non è successo proprio nulla di quello che immagini tu. Nulla di niente… Te lo giuro…»
«A ogni modo, dirò a tua madre di controllare, anche fisicamente, se è vero quello che dici e di tenerti meglio d'occhio d'ora in avanti.» Quindi si voltò e, mentre la signora Davies lo riaccompagnava al piano terra, la sentii dire: «Signor Roy, Mary è una ragazza d'oro, molto ingenua e sognatrice. La conosco bene, io! E so che non farebbe mai cose del genere.» E sempre lei, fermandosi un attimo sul ballatoio prima di scendere per le scale, esclamò verso di me: «Tienila, la mia borsetta, se ti piace! Ma resti a dormire da noi, vero, Mary?»
«Sì, signora Charlotte!», urlai e confermai d'impulso, perché in quel momento non mi sembrava troppo il caso di ritornare dai miei. Poi, non so cosa mi prese: strinsi con tutta l'energia che potevo il cuscino tra le braccia e mi venne voglia di piangere. Anzi no, piagnucolai e frignai forte e a lungo, come quella sciocca bimbetta mocciosa e lagnosa che ero, o solo perché così mi consideravano gli altri.
Dopo quella notte, John mi diede il taglio e ogni volta che per caso ci incrociavamo in giro da qualche parte, praticamente mi ignorava, come se io non esistessi più per lui. Persino se capitava di passarci accanto per strada, pur essendo completamente soli, lui proseguiva oltre, senza neppure un saluto o rivolgermi uno sguardo. Non so perché si comportò così. Forse per paura di mio zio, o perché si era accorto che eravamo troppo diversi. O magari, influenzato da quegli stupidi pettegolezzi su di me, in quella notte per davvero si aspettava che io facessi con lui chissà cosa e ci era rimasto male. Anche se quella che ci rimase più male fui io; e per molti sabati dei mesi successivi, sola, nel mio tubino nero e la gonna a ruota in tulle decorata dai pois luminosi, le scarpe da ballo e la data di quel sabato incisa a pennarello sul rovescio del mio polso, simile a un tatuaggio sulla pelle, mentre Beth Orton dal vecchio mangianastri della mamma cantava quella canzone, restai nella penombra vicino alla finestra della mia cameretta, gli occhi appuntati al cielo, a guardare lo scintillio delle stelle e ad aspettare, con le mie margherite e gerbere ormai appassite in un vaso, il rombo di quella cabriolet rossa fiammante… che però non arrivava… che non sarebbe più arrivato…
Ultima modifica di Yakamoz il 26/12/2024, 13:44, modificato 1 volta in totale.
Racconto a tema adolescenziale, romantico e malinconico. Complimenti per le descrizioni accuratissime, che "immergono" il lettore nella storia come se la stesse vedendo. Certo, a far tenerezza, più che la protagonista è il povero John, che era disposto pure a baciare sulla bocca una ragazza che aveva appena vomitato pur di giungere al dunque, e si trova invece di fronte un colosso (sette piedi sono circa 2, 13 metri) di zio che deve averlo traumatizzato non poco…
Piacevole, davvero.
Vittorio Felugo ha scritto: 24/12/2024, 11:28
Racconto a tema adolescenziale, romantico e malinconico. Complimenti per le descrizioni accuratissime, che "immergono" il lettore nella storia come se la stesse vedendo. Certo, a far tenerezza, più che la protagonista è il povero John, che era disposto pure a baciare sulla bocca una ragazza che aveva appena vomitato pur di giungere al dunque, e si trova invece di fronte un colosso (sette piedi sono circa 2, 13 metri) di zio che deve averlo traumatizzato non poco…
Piacevole, davvero.
Grazie del bel commento, Vittorio.
A rileggerci…
(Cosa strana: mentre io leggevo te, tu leggevi me.)
nelle sua scuola - nella sua scuola
e l rombo del motore - e il rombo del motore
testo pulito e ben scritto. Tutto sommato una storia non molto diversa dalle mie. Anche lo stile non l’ho visto molto distante dal mio, come tu mi hai detto. Confesso che l’ho letto d’un fiato (la prima volta) poi l’ho riletto cercando qualche frase che suonava male, ma non ne ho trovata nemmeno una, quindi bravo!
Un po’ eccessiva la reazione dello zio, il povero John ci ha rimediato pure un naso rotto e non mi meraviglia che persino se gli capitava di incrociarla per strada, lui proseguisse oltre, senza neppure un saluto, ma se l’amore è cieco...
Io non amo troppo i riferimenti a luoghi stranieri, ma qui entriamo in faccende di gusti personali.
Voto 5
Alberto Marcolli ha scritto: ieri, 11:48
nelle sua scuola - nella sua scuola
e l rombo del motore - e il rombo del motore
testo pulito e ben scritto. Tutto sommato una storia non molto diversa dalle mie. Anche lo stile non l'ho visto molto distante dal mio, come tu mi hai detto. Confesso che l'ho letto d'un fiato (la prima volta) poi l'ho riletto cercando qualche frase che suonava male, ma non ne ho trovata nemmeno una, quindi bravo!
Un po' eccessiva la reazione dello zio, il povero John ci ha rimediato pure un naso rotto e non mi meraviglia che persino se gli capitava di incrociarla per strada, lui proseguisse oltre, senza neppure un saluto, ma se l'amore è cieco…
Io non amo troppo i riferimenti a luoghi stranieri, ma qui entriamo in faccende di gusti personali.
Voto 5
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Grazie del tuo commento, ne sono lusingato, anche della segnalazione dei due refusi; capita. Perché è più facile vedere i piccoli errori degli altri che i propri: si è sempre un po' distratti su un proprio testo rispetto a quello di un altro autore. L'ambientazione straniera è dovuta al fatto che, in origine, questo "passaggio", molto rielaborato per farlo diventare un racconto (che poi ho tagliato dallo scritto originario, sempre di mia penna), e stravolgerlo in un contesto più italiano sarebbe stato abbastanza difficile e scocciante farlo.
Grazie anche del voto, Marcolli.
Comunque, il racconto, a parte la difficoltà di cercare di immedesimarmi, essendo io maschio, nella testa e nel linguaggio di una ragazza adolescente, contiene una messaggio molto semplice, questo:
"Che l'amore esiste se ci credi, e prima o poi arriverà, o continuerà a essere - sempre! - se è già arrivato." Qui, in particolare, si parla di amore di coppia, ma nel nostro essere uomini (o donne) esistono tantissimi altri modi di amare. D'altronde anche la scrittura è una forma di amore, no?
Saluti,
Antonio
P.S. Ultima cosa: in questo testo non siamo distanti nella prosa/contenuti, ma in altri un po' meno. Sarà che col tempo divento più saggio/buono.
Trentun paia di gambe hanno pedalato con la loro fantasia per guidarci nel puro piacere di sedersi su una bicicletta ed essere spensierati, felici e amanti della Natura. A cura di Massimo Baglione. Copertina e logo di Diego Capani.
"La spina infinita" è stato scritto quasi vent'anni fa, quando svolgevo il mio servizio militare obbligatorio, la cosiddetta "naja". In origine era una raccolta di lettere, poi pian piano ho integrato il tutto cercando di dare un senso all'intera opera. Quasi tutto il racconto analizza il servizio di leva, e si chiude con una riflessione, aggiunta recentemente, che riconsidera il tema trattato da un punto di vista più realistico e maturo. Di Mario Stallone A cura di Massimo Baglione.
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