Il fiore amaro dell'ailanto
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Il fiore amaro dell'ailanto
«Voscenza s’abbenerica» lo ossequiò l’anziano giardiniere, con una levata di berretto e una reverenza di capo.
Il grembiule gli scendeva fino ai piedi come una veste talare e lui, già magro e sfilato di suo, pareva ancor più secco di una canna al vento.
«Don Peppino» lo salutò il principe, mentre un gesto veloce provava a sistemare la bionda cresta leonina.
«Propiu ‘na bbedda jurnata di suli, eccellenza» rispose, e già aveva ripreso a sforbiciare, nel tentativo di metter ordine nelle fitte siepi di pittosforo.
«Peccato ‘unn arrinesca a scaldarici puri ‘u cori a la genti» fece di rimando don Raimondo.
«Voscenza, 'u suli curpa ‘unn’avi» sentenziò don Peppino.
Il principe si adombrò, il cielo azzurro smarrì l’incanto e riprese a essere il muto testimone che sempre era stato.
«Siamo infelici e malinconici, eternamente insoddisfatti, e sempre alla ricerca di qualcosa, che tuttavia sfugge: guardate» e indicò gli intonaci del palazzo quasi del tutto sbriciolati dalle intemperie e dall’incuria. «Hanno visto tutto: eretici e autòs da fé, apostoli e annunciazioni, rivolte e impiccagioni, restaurazioni, repubbliche, re e imperatori; cento conquistatori e tutte le lingue e le illusioni del mondo» mormorò, con l’amarezza di chi le sue illusioni le aveva già viste tutte svanire.
«Voscenza tuortu ‘unn’avi. Rassignati semu e 'ndiffirenti.»
«E con la segreta voglia in corpo di farla finita» aggiunse il principe, ma sottovoce, nel timore che, per quell’ardire, si potesse abbattere su di lui uno strale della collera divina.
Don Raimondo Montecateno, ultimo dei principi di Leonforte, di antica e illustre discendenza catalana, era il perfetto prodotto di secoli di iattanza coscienziosa e di noia spensierata.
Alto, magro, occhi azzurri come il cielo e bello come il sole, nutriva per la vita un sentimento tragico; abitava, come i suoi antenati da innumerevoli generazioni, il palazzo di famiglia, nei vicoli oramai sudici dell’Albergheria; una cupa costruzione spogliata, dal trascorrere del tempo e dal disinteresse degli uomini, dei segni dell’antico splendore.
Quelle pietre avevano conosciuto tutta l’arroganza e i privilegi di secoli di ladronerie e di sprechi di quell’orrenda razza spagnola che aveva messo in ginocchio l’isola, e tutto lo sfarzo e il lusso che la nobiltà siciliana sola conosce. Ma dell’antico fulgore non era rimasto nulla, oltre a pareti spoglie, e nulla dell’immenso patrimonio; dissipato dal bisavolo per la causa separatista fin dai tempi del Comitato Rivoluzionario di Ruggero Settimo, dal nonno tra tavoli da gioco e ballerine francesi, dal padre in folli spedizioni archeologiche alla ricerca della biblica arca di Noè.
«La pazzia abita a casa Montecateno» salmodiava la nonna di don Raimondo, quando questi era ancora nicuzzu e nel suo siciliano litaniava stanze stanze: «‘A fuddìa è ‘na bbuttana, ca si suca ‘a robba nostra e puru li figghi. Però a mmia 'un mi futti, ’sta bbuttana!»
Ma donna Eleonora non aveva fatto eccezione, e aveva terminato i suoi giorni sbavando rabbiosa dentro una cella spoglia del convento delle carmelitane scalze di piazza della Kalsa.
«La pazzia è figlia di quest’isola assolata» ricordò a se stesso don Raimondo, che seguiva il filo invisibile dei suoi pensieri nel tentativo di scongiurare, con un motto originale, un destino, a suo sentire, ineluttabile.
Un giorno, durante la quotidiana partita a scacchi col farmacista Consales, mentre sorseggiava un bicchierino di acqua e zammù all’ombra del gigantesco ailanto che sovrastava il giardino, don Raimondo s’animò: «E se la causa della prostrazione del popolo siciliano, la sua incapacità di guardare al futuro, non dipendessero dall'indolenza, come voi sostenete, dottor Consales? Se la causa della miseria del nostro popolo non risiedesse nel susseguirsi ininterrotto di gioghi stranieri, com’è invece convinto monsignor Agrusa? Se queste fossero solo le conseguenze e non la causa? Se ciò che impedisce ai siciliani di partecipare ai capovolgimenti storici che affannano il mondo sia l’immensità stessa della natura e la vastità del tempo?» Domandò, e abbozzò un sorriso unito a un'alzata di occhi al cielo, come se dovesse ringraziare il Padreterno per quella magnifica intuizione.
E dopo averci a lungo riflettuto spostò il cavallo nero alla destra dell’alfiere bianco, sopra la scacchiera sulla quale i Montecateno si vantavano avessero giocato un’epica partita il viceré Caracciolo e l’abate Meli.
Ogni volta il principe concentrava la sua attenzione sul baluginio di un’idea, la inseguiva, la sviluppava, finiva per innamorarsene e, infine, l’abbandonava.
«Il siciliano, a differenza degli altri europei» continuò con la sua voce calda «percepisce la vacuità dell’essere uomo.»
E arroccò il re alla destra della torre.
«E riconosce fondato e vero il solo governo della natura e della necessità degli eventi; eventi dei quali si sente attore o comparsa, a seconda dei casi, giammai regista. Da questo sentimento scaturisce la nostra incapacità di costruire la nostra storia senza ricorrere a un aiuto esterno. Poiché non riusciamo a concepire il corso degli eventi umani come un’entità controllabile e assoggettabile a nostro piacimento. Di conseguenza, ci adattiamo alla realtà e perciò la subiamo; i siciliani si destano solo per necessità, per causa di forza maggiore, e infatti quando ciò accade essi si sollevano con la furia dei Titani, come durante i Vespri, o al tempo di d’Alessi, di Ruggero Settimo o al tempo dei Fasci, quando l’unità nazionale mostrò il volto aspro della colonizzazione. I siciliani vedono intorno a loro, tutti i giorni sin dalla nascita, le magnifiche e diseguali vestigia di millenni di dominazioni straniere: nelle strade, nei palazzi, perfino nei loro stessi nomi o nel colore della loro pelle o dei propri occhi. Allora, è chiaro come ci appaia vera non la lotta contro il barbaro, contro il diverso, contro l’altro ma, al contrario, quella perpetua contro la durezza della natura, contro questo cielo maledetto, sempre azzurro e assetato.»
Con don Raimondo, nell’immenso palazzo di famiglia, vivevano la madre, donna Teresa, e la sorella Marianna, frutto, si era mormorato a suo tempo, di una relazione incestuosa tra donna Teresa e il fratello, il duca Ignazio La Grua.
Il padre di don Raimondo, Jaime, partito molti anni prima, non aveva più fatto ritorno da quell’ultima spedizione sull’Ararat, e si favoleggiava vagasse ancora nelle steppe dell’Asia centrale alla ricerca di un favoloso tesoro da tutti dimenticato.
Donna Teresa, a dispetto della sua apparenza minuta, era una donna forte e mostrava ancora nel viso, sotto l’aspetto severo e triste di chi cerca in tutti i modi di sopravvivere alla rovina della propria casa, i segni di un’antica bellezza.
La figlia Marianna, più giovane di don Raimondo, non era bella: aveva un viso lungo e scarno dal colorito pallido su cui dominavano occhi cerulei un po’ obliqui e sporgenti, e uno sguardo inquietante, ardente, come di chi sia divorato da una oscura e indicibile sofferenza.
Nonostante ciò non mancava di un certo aristocratico, e sottile, fascino tale da non lasciar rimpiangere quella mancanza di avvenenza.
Marianna viveva ritirata, come fosse stata reclusa, prigioniera di quell’antica magione priva ormai di mobilia, con gli splendidi affreschi e gli antichi arazzi quali unici ornamenti, vittima consapevole di una colpa non commessa, rassegnata a vivere una vita al margine serrata tra quelle mura che, pur appartenendogli, non sentiva sue.
Trascorreva le sue giornate in una sorta di clausura, da monaca di casa, dedicandosi in silenzio al ricamo e alla creazione di ricercati motivi decorativi per completi di lenzuola e di tovaglie, ogni giorno infelice eppur serena. Sottomessa di carattere, non chiedeva altro se non di far felice la madre e servire il fratello, di cui riconosceva non tanto la superiorità intellettuale quanto la superiorità del sangue; perché egli era – lui sì! – un Montecateno, l’ultimo vero erede di secoli di storia.
Quel magnifico passato li schiacciava e li rendeva incapaci di cogliere il presente; perciò essi avevano rinviato ogni decisione, l'intera loro vita, a un futuro che avesse potuto uguagliare ciò che era stato e perciò non sarebbe giunto mai.
Erano questi gli ultimi Montecateno.
Tuttavia, tra i cespugli variopinti del giardino, come all’interno dei giganteschi saloni ormai vuoti se non per qualche consòlle o étagère sopravvissuta alle urgenze dei creditori, in mezzo ai tanti libri rimasti, don Raimondo godeva di una condizione di particolare tranquillità, essendo l’unico e ultimo discendente maschio di una gloriosa e illustre casata, e quindi il legittimo depositario di tutte le cure e le attenzioni di cui la madre e la sorella lo facevano oggetto e monumento.
Il nostro Raimondo, lo chiamavano entrambe, ed esse vivevano unicamente per lui, e le loro residue speranze le avevano riposte in lui. Era loro compito permettergli di vivere sereno, di non fargli mancare mai nulla e di condurlo a un buon matrimonio che avrebbe permesso loro di risalire la china. Un sogno coronato dall’arrivo di un erede maschio in grado di far sopravvivere, almeno per un’altra generazione, un’altra ancora, il nome illustre dei Montecateno.
Purtroppo per loro don Raimondo non si dava cura di nulla, si sentiva un poeta e un filosofo, e le sue occupazioni consistevano nel leggere e nello scrivere.
E non scriveva, a parte qualche raro articolo sul Giornale di Sicilia — e per cui rifiutava con sdegno i sia pur minimi compensi — che per se stesso, fermo nell’invincibile convinzione che nulla di quanto producesse fosse degno di essere ricordato.
In sostanza, non si preoccupava di nulla e non aveva nulla di cui lamentarsi; era stato dispensato dalla vita e poteva vivere nell’oblio contando sul lavoro della madre e della sorella, le quali si affannavano tutto il giorno solo per lui consumando dita e occhi su trame e orditi.
E donna Teresa, in fondo al cuore consapevole della inadeguatezza del figlio, sapeva bene che, al di là dei sogni e delle speranze, a segnare un confine tra la sopravvivenza e la sventura vi era solo il suo impegno; e soltanto grazie al lavoro suo e della figlia —sapeva — poteva conservare la speranza: di salvare loro stessi e centinaia di anni di storia dalla rovina.
Con non pochi sforzi era riuscita a farsi una buona clientela nelle ricche dame della nuova aristocrazia palermitana, quella del denaro e non del sangue.
Grazie a donne viziate e arroganti, che non potevano fare a meno delle tovaglie e delle lenzuola ricamate dalle nobili mani delle principesse Montecateno di Leonforte, donna Teresa aveva tenuto in piedi la famiglia, e aveva esercitato il suo ruolo con dignità e coraggio.
E dei frutti di questo coraggio don Raimondo godeva e si avvantaggiava.
Il principe amava trascorrere quelle giornate d’inizio estate con una passeggiata lungo la vecchia via Toledo, da Porta Nuova giù fino al Teatro del Sole e poi lungo via Maqueda ad arrivare fino alla via d’Alcalà e alla Villa al Mare: per poi tornare e riposare nel grande giardino del palazzo di famiglia. E così ogni pomeriggio si stendeva in una poltrona di vimini all’ombra del maestoso ailanto, piantato secoli prima dal suo avo Guglielmo Luigi III, che ricopriva ogni angolo col frutto rossastro dei suoi rami, innalzandosi prepotente a sfidare il cielo e a occultare il sole, e si addormentava. E non poteva fare a meno di pensare quanto, in fondo, la vita somigliasse a quell’albero: così alto e spavaldo da sostenere il cielo coi suoi rami, sotto i quali si godeva di frescura e quiete, ma i cui frutti, così belli a vedersi, erano tanto amari da esser velenosi.
In quel sereno angolo di mondo, nascosto alla vista e riparato dalle intemperie del clima come dalle angustie degli uomini, don Raimondo viveva senza fatica, com’era giusto forse per chi poteva vantare nel proprio albero genealogico una mezza dozzina tra cardinali e viceré, e dimenticava il presente ricordando il passato e ignorando il futuro.
Aveva soldi a sufficienza per i suoi sigari, per qualche libro che lo interessava e per altri piccoli desideri; vestiva con eleganza, la sorella Marianna gli dedicava ogni cura possibile, per cui usciva sempre in perfetto ordine, col vezzo del bastone da passeggio e del grande panama bianco. E tutto questo, in definitiva, gli bastava.
«Cosa contano le ricchezze del mondo, se si possiede tutta la virtù necessaria?» Si rivolgeva alla sorella, fiero di sé.
Di tanto in tanto, per svagare la mente e allenare il corpo, svolgeva qualche commissione per la madre: forniture di materiali o, più spesso, consegne di lavori già terminati o acquisizioni di nuovi ordini.
E questa, col passar del tempo, era divenuta quasi un’occupazione, dato che le ricche signore dell’alta borghesia panormita adoravano vedersi recapitare i loro pacchi dal colto e sensibile principe di Leonforte in persona; al quale, tra teneri indugi e finti svenimenti, finivano per rivelare i loro travagli o gli affanni di cuore a cui i loro mariti, padri e fratelli, non avevano tempo, o voglia, di porgere orecchio.
Don Raimondo, pertanto, sebbene vivesse con due donne, era solo perché non ne aveva alcuna. Tuttavia qualche volta, tra un pensiero sublime e un’armonica visione, ci pensava seriamente a prender moglie; ma sentiva che quella strada gli fosse, in qualche modo, preclusa: era come se, avendo già una famiglia, non avesse alcun diritto a crearsene un’altra.
La sorella viveva per lui, la madre lo proteggeva, da tanti era apprezzato e anche la gente del quartiere non mancava di cercarlo per consigli di ogni genere. Eppure don Raimondo, a volte, sentiva prepotente la mancanza di un qualcosa, o di qualcuno. E quel qualcuno, sempre più spesso, si materializzava nei suoi pensieri e nei suoi sogni nelle fattezze di una donna: una donna solo per sé, una donna in grado di amarlo con la medesima profondità con cui lui sentiva il mondo.
Naturalmente era consapevole che, per prender moglie, fosse necessaria una certa, seppur minima, indipendenza economica. E così a un certo punto, spinto dal desiderio di raggiungerla, dalla necessità del guadagno, per la prima volta in vita sua si attivò per trovare un’occupazione qualsiasi che gli fruttasse anche un po’ di denaro.
Grazie alle conoscenze di monsignor Agrusa trovò un non ben specificato impiego da svolgere presso gli uffici cittadini della segreteria del P.N.F. Si trattava di un lavoro che non richiedeva alcuna particolare capacità e, pertanto, si adattava perfettamente alla sua indole. Don Raimondo non sapeva fare nulla, e perciò pensava di saper far tutto, e peraltro, illuso dalle proprie fantasie, egli era disposto anche a far di tutto.
E così, pur vantandosi di essere uno spirito libero e un anarchico stavroghiniano (sic!), lavorò con entusiasmo per il partito fascista e arrivò a dirigerne, da solo e a tempo pieno, la locale sezione.
Divenne infaticabile, si occupò della propaganda, delle iscrizioni dei nuovi tesserati, del bilancio e delle attività sociali, come delle esercitazioni militari degli avanguardisti e, il sabato, dell’adunata fascista.
Scoprì di avere delle discrete attitudini ginniche e instaurò un profondo rapporto cameratesco con la squadra di picciotti che aveva formato.
Ogni domenica li conduceva in gita nei dintorni di Palermo, li portava a marciare per i campi, in montagna, lungo le spiagge, declamando i versi di Byron e di Shelley; in mezzo a tanto fervore e dedizione al partito, impegnato com’era a esercitare le maschie attività cameratesche, la sua insoddisfazione sembrò placarsi.
Ma la pace ebbe breve durata.
Don Raimondo, spinto da un impulso irrefrenabile ad agire acuito dall’astinenza, prese a frequentare il bordello di vicolo Villanueva, e lì si scoprì di appetiti insaziabili; ma quel sesso sfacciatamente esposto e comperato, come pesce al mercato, mal si adattava al suo temperamento, e ciò gli procurò, a lungo andare, un vago senso di vuoto e di soffocante inutilità che, dopo qualche tempo, lo spinse in un vortice di penosa depressione e perenne disistima di sé.
Accadde più o meno in questo periodo che don Raimondo avesse organizzato, con i suoi picciotti, una gita in bicicletta a Cefalù, con pernottamento all’addiaccio. Così, al termine di una faticosa e calda giornata di fine primavera, il principe ebbe la ventura di condurre l’intera maschia brigata di adolescenti all’assalto di un bordello dentro l’abitato della cittadina.
Alla testa di un manipolo di eroi irruppe nella casa e, nel comico tentativo d’imitare il principe di Montenevoso, si animò: «Suggete il sacro effluvio di queste bbuttane, o miei arditi!»
Incitate le sue schiere, tiratosi giù i calzoni fino alle caviglie, prese a inneggiare le rime del Vate, tra grida di donne e lo stupore dei legittimi avventori, e seminò il panico, in violazione di tutte le leggi che regolavano il meretricio nelle case di tolleranza.
L’avvenimento ebbe larga eco in provincia, quasi uno scandalo, non tanto per il fatto in sé ‒ ben poca cosa in realtà ‒ ma proprio perché fu il principe a condurre lo sconclusionato assalto al bordello.
Il partito gli tolse ogni incarico senza far rumore e don Raimondo si ritrovò, da un giorno all’altro, di nuovo disoccupato, a consegnare pacchi per la madre e a scriver poesie che nessuno leggeva.
Le sue stranezze aumentarono e sia la madre che la sorella riconobbero i primi sintomi della malattia che per generazioni aveva ammorbato i Montecateno.
«Che hai Raimonduzzu?» Lo coccolava donna Teresa, con le lacrime agli occhi.
E lui, senza distogliere lo sguardo dal vuoto, rispondeva: «Chi guarda in faccia la disperante Necessità impazzisce, e l’unica salvezza è l’ebbrezza o il sogno.»
Donna Teresa capì.
L’estate passò e don Raimondo parve essersi un’altra volta chetato, lentamente, come le onde del mare che, dopo giorni di tempesta, abbandonano le rive da poco conquistate; ricominciò a frequentare con assiduità il bordello di vicolo Villanueva: di donne, però, di donne vere, nemmeno l’ombra.
E sì che, avendo ripreso a consegnare pacchi per la madre, non gli mancavano certo le occasioni per fare delle belle conversazioni col gentil sesso; ma nulla sfociava poi in qualcosa di concreto.
Non che le donne ‒ le donne vere s’intende ‒ non lo gratificassero, anzi forse lo facevano in modo eccessivo a causa della sua capacità di leggere i sentimenti altrui.
Riscuoteva tanta di quella fiducia tra di loro da non potersi permettere, per paradosso, di avvalersi dei suoi diritti di maschio, prigioniero del ruolo di intimo confidente, comprensivo, sicuro, affidabile, al quale si poteva rivelare, senza pena e senza timore, ogni affanno e ogni peccato e ricevere in cambio considerazione e consigli.
Questa condizione, seppure in qualche modo lo premiasse, lo consumava ogni giorno un po’ di più, perché conosceva ogni segreto di donna, ma non poteva comportarsi da uomo vigoroso qual era.
Ma a quella condizione, un bel dì, decise di non rassegnarsi.
Informò la madre della sua decisione irrevocabile: «Prendere moglie! Una qualunque donna. Purché sia tutta mia, solo mia» precisò, con quel piglio militare appreso quando dirigeva la sezione del P.N.F. di Salita Ramirez.
E donna Teresa, ancora una volta, supinamente l’assecondò, nella speranza che una moglie avrebbe placato i furori del figlio e allontanato lo spettro della malattia dei Montecateno; ma nel profondo convinta a tenerselo in casa folle piuttosto che vederlo legato a una donna qualunque.
«La moglie d’un principe di Leonforte deve essere patrizia» si confidò un giorno con la figlia. «Una delle ragazze Alliata certo, o può darsi una Torrearsa, o magari una Lanza di Scalea» perché temeva, se così non fosse stato, che il sangue di viceré e cardinali si sarebbe mischiato col fango.
Sulle sue povere spalle di vedova gravava la responsabilità di settecento e più anni di storia.
La voce che don Raimondo volesse prender moglie corse silenziosa per la città, ma nessuna nobile pretendente al titolo di principessa di Leonforte si fece avanti, in molte, certo, allettate dal titolo, ma di più spaventate dai debiti.
Marianna soffriva in silenzio, com’era sua abitudine, per la madre e per il fratello che vedeva, giorno dopo giorno, scivolare verso un destino del quale percepiva l’inesorabilità, e di cui lei si sentiva, per qualche oscura ragione, causa.
Quasi dipendesse solo da lei il poter fare qualcosa, come se solo in lei fosse riposta l’unica possibile soluzione.
Dal canto suo don Raimondo continuava a scrivere, a consegnare pacchi, e a dare segni di squilibrio.
Una mattina, andato a prendere un ordine per una tovaglia ricamata, gli aprì la porta la padrona di casa.
Era una bella donna sui quarant’anni, florida, dalla carnagione fresca e dagli occhi lucenti e maliziosi, ed era avvolta solo da una eccitante vestaglia, che lasciava intravedere più che nascondere, presaga di inimmaginabili lussurie.
Al principe sembrò che il sangue gli prendesse fuoco nelle sue stesse vene, e fu sopraffatto dal desiderio, e da una indicibile collera al pensiero che quella donna così meravigliosa non fosse sua, ma di qualcun altro.
Sentì ribollirsi d’ira, come di chi non riesce più a tollerare la presenza di un odiato nemico.
Vide schiere di eroici antenati sfilargli innanzi con le else insanguinate, a incitarlo all’azione, alla violenza; sentì la forza di mille anni di rapine e di stupri irrigidirgli i muscoli, si sentì un Ares trasfigurato.
Lanciò un’occhiata insieme feroce e lasciva alla donna, si aprì i pantaloni, con un gesto quasi di sfida, e rimase immobile a fissarle gli occhi scuri.
La donna lanciò un urlo.
Nessuno seppe nulla di quanto accadde: la ricca signora tacque la violenza subita, forse per paura, forse perché, in fondo, appagata dell’esser stata causa di tanto virile furore.
Tuttavia, in qualche modo, donna Teresa venne a sapere dell’accaduto.
Informata, senza l’omissione dei particolari più osceni, donna Teresa, per la prima volta in vita sua, ebbe una reazione furibonda: nulla poté salvare don Raimondo dalla sua ira e dai suoi rimproveri e, a malincuore, anche dal disappunto della sorella.
Dopo quel fatto il principe si avvolse ancor di più in se stesso, prese a non uscire di casa, rifiutò ogni forma di comunicazione; si negò agli amici che andavano a trovarlo, chiuso in un ostinato mutismo, come se ogni parola fosse divenuta di colpo incapace di esprimere l’abisso che aveva dentro, e il silenzio solo fosse in grado di esprimere quanto provava.
Immobile, sdraiato sopra il letto, ascoltava muto le invettive della madre: «Rimminchionitu. Fimminaru! Quale demone avete dentro, voi Montecateno?» Imprecava disperata, stanca di difendere il figlio insieme al suo nome.
Marianna lo osservava di nascosto, all’apparenza imperturbabile e silenziosa;socchiudeva appena i grandi occhi innocenti e piangeva, senza farsi notare.
Il suo Raimondo non le parlava più, non discuteva più con lei, non rispondeva, stava supino nel letto, vinto dall’indifferenza, perso in cosmici pensieri, amante non amato, ossessionato e consumato da un’estasi amorosa che non trovava sfogo.
Trascorsero un paio di settimane, don Raimondo li visse in uno stato di torpore cosciente in cui rifiutò ogni presenza umana eccettuata quella della sorella che, con incredibile pazienza e senza cedimenti, lo aveva vegliato, imboccato come si può fare con un bambino o con un malato, perché riconosceva nel proprio fratello la malattia di cui lei stessa era parte e colpa: la malattia dei Montecateno.
Don Raimondo la fissò riconoscente, muto, distolse appena gli occhi azzurri dai suoi per cercare il cielo al di là della finestra, screziato da nuvole cremisi illuminate dall’ultimo sole delle corte giornate d’autunno.
E tra le nubi immagini di giovani donne si rincorrevano e si dissolvevano, spazzate dal vento, per poi tornare con tutte le tonalità cangianti del vermiglio e del vermiglione del tramonto novembrino.
Intento a seguire aeree figure femminili carezzò la delicata mano di Marianna e, mentre il pallido viso di lei si riempiva di lacrime, egli avvertì la presenza, la morbida fragranza, della sorella che, silenziosa e leggera come una libellula, senza mai lasciare la sua mano, s’infilava nel suo letto.
Udì un profondo sospiro e si sentì prendere come da un’ondata d’inebriante calore.
Guardò il cielo, ormai scuro, e gli parve che le fronde alte del gigante che dominava il giardino, cariche di delicati germogli vermigli, muovendosi al vento avessero avvolto l’intero palazzo in un abbraccio modulato e voluttuoso.
Chiuse allora gli occhi senza riuscire a stabilire se stesse fantasticando ancora o se infine,non stesse per cogliere il frutto amaro dell’ailanto.
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Re: Il fiore amaro dell'ailanto
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Ciò può dare libero sfogo alle ossessioni; don Raimondo cerca di scappare da quell'ambiente, partecipando alla vita sociale, ma inevitabilmente finisce per ritornare alla situazione di prima, ancora più insoddisfatto e infelice. E infine, come per una coazione a ripetere, ritorna l'incesto: forse perché l'unica donna degna di congiungersi al principe non può che essere la propria sorella?
La corruzione (anche) del sangue è uno dei temi del romanzo "I viceré" di F. De Roberto, e l'atmosfera di questo racconto mi ha fatto pensare a quella vicenda, più che al Gattopardo o ai racconti di Camilleri.
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Re: Il fiore amaro dell'ailanto
Questo passato che schiaccia il presente è ben rappresentato nel romanzo "I Viceré" di De Roberto, che non so quanti conoscano. Lì si narravano le vicende catanesi della nobile famiglia Uzeda (realmente esistita come i Montecateno e che ha dato qualche viceré alla Sicilia), qui invece anche se siamo a Palermo è sempre la parzialità catalana la protagonista con una rotta analoga a quella degli Uzeda.
Bella riflessione e dotta e azzeccata citazione.
Un caro saluto.
- Eleonora2
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E' un dettagliato ed eloquente affresco dell'epoca narrata, con interessanti accenni di storia, di costume e anche di psicologia umana sulla quale non si può non riflettere.
L'efficacia delle descrizioni mi ha permesso di visualizzare le varie scene, insomma ho apprezzato la tua maestria nell'arte della scrittura che io definirei quasi "in 3D".
Dal mio "non piedistallo" di apprendista scrittrice, ti dico "bravo!".
Ciao.
- Marino Maiorino
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Il racconto è una finestra aperta su quella Sicilia che ho imparato a conoscere, coi suoi misteri senza tempo, le sue glorie ingloriose, e un'eterna tensione tra forma ed essenza che la dilania tutta, il tutto ben custodito e tenuto sotto silenzio dietro gli occhi, dentro l'anima di ciascuno di voi.
Un turista oggi, un'epoca di massa, potrebbe forse non percepire le contraddizioni ancora evidenti quando visitavo l'isola fino a venticinque fa, non lo so, ma per me Sicilia era questo: bellezza senza misura e timori innominabili, gloria e storia delle più alte e totale mancanza di un pensiero futuro, orgoglio e rassegnazione, amicizie che nascevano forti come catene d'acciaio con persone che avrebbero voluto spaccarmi la faccia fino a un istante prima, per motivi tanto ridicoli come l'essere nati appena due giorni prima o dopo...
Sicilia era vivere per due settimane in una dependance del paradiso, dove solo l'anima conta, persino in una ridicola pensione che faceva litigare i miei genitori per tutto il tempo della permanenza (ma loro erano già nel XXI secolo...).
Dove voglio arrivare? Che qui, Namio, hai narrato di una famiglia nobile, in tal modo solo acuendo il contrappasso tra i nobili natali e il "folle" sentimento e la "folle" storia, ma credo che avresti potuto ambientarla in qualunque altra famiglia dell'isola senza fargli perdere neanche un pizzico della sua essenza.
Io non credo di avere tutto il registro emozionale per decifrare tutto quello che tu ci hai messo, ma quel poco che fa risuonare in me è opera lirica, è bellezza che (mi) fa piangere, e di questo ti ringrazio.
Ciò detto, il racconto così com'è presentato è poco coerente, al principio: introduci dapprima il protagonista dopo un dialogo col giardiniere (due paragrafi), un terzo paragrafo è un excursus sulla partita a scacchi dove il punto principale non verrà poi collegato in maniera palese col resto, e infine parte il racconto vero e proprio. Queste incoerenze fanno pensare a un lavoro di riedizione (magari per i limiti delle gare?). Se hai il lavoro completo, ti prego, dove lo trovo?
Senz'altro il mio voto è il massimo.
Racconti alla Luce della Luna
Autore presente nei seguenti libri di BraviAutori.it:
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Re: Commento
Ciao, Francesco. Grazie del passaggio. Beh io provo sempre a rispondere e un'idea mia personale di quello che siamo e stiamo diventando me la sono fatta. Ora mi fazzu 'nanticchia r'acqua e zammù, puru si su l'otto di matina.Francesco Pino ha scritto: ↑29/06/2022, 23:03 Raimondo è un personaggio apparentemente ambiguo, a me sembra deluso da tutto, eternamente insoddisfatto di sé e di ciò che lo circonda. Non del tutto rassegnato a quel destino che sembra un marchio di famiglia, tuttavia anche lui lo subisce.
Racconto particolare, arricchito da quelle riflessioni sul popolo siciliano. Io alla domanda "perché siamo così?" ancora non so rispondere.
Zammu' è una parola difficile per chi non è siciliano, senza internet non sarebbe facile capire cos'è
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Re: Commento
Hanno fatto un film dai Viceré? Per il Gattopardo c'è voluto Visconti, per il Viceré, a mio avviso qualcuno di meglio, chi è il regista?FraFree ha scritto: ↑02/07/2022, 17:17 Ti consiglierei una potata nipponica Scherzo! I tuoi lunghi sono sempre un piacere e sempre riusciti. Qui, non c’è nulla di superfluo, ogni passo è di ausilio alla storia e tutto viene contestualizzato. L’ambientazione storico-culturale, mai mancante nei tuoi scritti, inserita con perizia e conoscenza, dà, oltre a una cornice, una maggiore connotazione alla storia, nella quale ci ho trovato quel lasso decadente che si protrae fino all’epoca del fascismo. Don Raimondo e la sua famiglia hanno portato pure me a “I Viceré”, ma al film, perché il romanzo non l’ho letto.
Ci ho visto, nella follia e nell'incesto, anche una sorta di maledizione che si perpetua tra generazioni. Bello il finale e i dialoghi dialettali sono una chicca. Bravo, Namio, un brano efficace.
Grazie per sopportare i miei lunghi oltre che i brevi. Non ti manca niente.
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Re: Commento
Grazie, Eleonora. Se non li ho già tirati fuori talento e stile personale, vuol dire che non li posseggo.Eleonora2 ha scritto: ↑05/07/2022, 13:52 Il racconto, come al solito, è ben scritto. Si respira aria di Sicilia. Hai dimostrato di saperti esprimere in ogni genere. Ho dato 4. Convinta che tu possa tirar fuori talento e stile personale, che qui non vedo ancora. Non ho niente da dire sul testo e sei bravo.Alla prossima
Un caro saluto
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Re: Commento
Sono contento di essere riuscito a far riflettere il lettore. L'immagine della scrittura in 3D mi arriva per la prima volta, ma non è male.Maria Cristina Tacchini ha scritto: ↑09/07/2022, 16:35 Il racconto è decisamente coinvolgente e denota, dal mio modesto punto di vista, grande capacità nello scrivere.
E' un dettagliato ed eloquente affresco dell'epoca narrata, con interessanti accenni di storia, di costume e anche di psicologia umana sulla quale non si può non riflettere.
L'efficacia delle descrizioni mi ha permesso di visualizzare le varie scene, insomma ho apprezzato la tua maestria nell'arte della scrittura che io definirei quasi "in 3D".
Dal mio "non piedistallo" di apprendista scrittrice, ti dico "bravo!".
Ciao.
Mi prendo il bravo e ti ringrazio.
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Re: Commento
A mio avviso i Siciliani, come popolo, non certo presi individualmente hanno una deriva psicotica nel loro carattere. Ce l'hanno da sempre e ben evidente. Ma sempre a mio modestissimissimo avviso causata non dalla tensione tra forma ed essenza, come tu scrivi, ma da quella sorta di faglia trascorrente tra l'essere ciò che sono siamo e il dover essere ciò che gli altri, gli stranieri, le magnifiche dominazioni, vogliono che noi siamo.Marino Maiorino ha scritto: ↑09/07/2022, 18:07 <3
Il racconto è una finestra aperta su quella Sicilia che ho imparato a conoscere, coi suoi misteri senza tempo, le sue glorie ingloriose, e un'eterna tensione tra forma ed essenza che la dilania tutta, il tutto ben custodito e tenuto sotto silenzio dietro gli occhi, dentro l'anima di ciascuno di voi.
Un turista oggi, un'epoca di massa, potrebbe forse non percepire le contraddizioni ancora evidenti quando visitavo l'isola fino a venticinque fa, non lo so, ma per me Sicilia era questo: bellezza senza misura e timori innominabili, gloria e storia delle più alte e totale mancanza di un pensiero futuro, orgoglio e rassegnazione, amicizie che nascevano forti come catene d'acciaio con persone che avrebbero voluto spaccarmi la faccia fino a un istante prima, per motivi tanto ridicoli come l'essere nati appena due giorni prima o dopo...
Sicilia era vivere per due settimane in una dependance del paradiso, dove solo l'anima conta, persino in una ridicola pensione che faceva litigare i miei genitori per tutto il tempo della permanenza (ma loro erano già nel XXI secolo...).
Dove voglio arrivare? Che qui, Namio, hai narrato di una famiglia nobile, in tal modo solo acuendo il contrappasso tra i nobili natali e il "folle" sentimento e la "folle" storia, ma credo che avresti potuto ambientarla in qualunque altra famiglia dell'isola senza fargli perdere neanche un pizzico della sua essenza.
Io non credo di avere tutto il registro emozionale per decifrare tutto quello che tu ci hai messo, ma quel poco che fa risuonare in me è opera lirica, è bellezza che (mi) fa piangere, e di questo ti ringrazio.
Ciò detto, il racconto così com'è presentato è poco coerente, al principio: introduci dapprima il protagonista dopo un dialogo col giardiniere (due paragrafi), un terzo paragrafo è un excursus sulla partita a scacchi dove il punto principale non verrà poi collegato in maniera palese col resto, e infine parte il racconto vero e proprio. Queste incoerenze fanno pensare a un lavoro di riedizione (magari per i limiti delle gare?). Se hai il lavoro completo, ti prego, dove lo trovo?
Senz'altro il mio voto è il massimo.
Tra il produrre la storia, l'essere l'artefice del proprio destino e il subirlo.
Quando i francesi arrivarono a Napoli, non ricodo se nel 1806, il vecchio Borbone Ferdinando scappò a Palermo protetto dalla flotta britannica, che garantì l'indipendenza del Regno di Sicilia da quello di Napoli fino a quando Napoleone non venne fatto fuori (e lasciamo perdere gli inglesi prima e gli americani dopo abbiano fatto con Palermo e Napoli prima e poi Roma lo stesso giochetto di cui nessuno sembra darsi conto).
La permanenza di Ferdinando a Palermo come re del solo Regno di Sicilia durò circa un decennio. Decennio in cui la nobiltà palermitana, nella speranza che dopo la cacciata dei francesi la capitale del Regno unificato rimanesse a Palermo, costruirono palazzine di caccia in tutta l'isola per il re cacciatore, palazzine cinesi e via discorrendo, organizzarono feste e sollazzi ogni giorno, fecero di tutto per imbonire e portare dalla loro parte quel re che sentivano lontano. Per il trastullo del re e della sua corte vennero impiegate a fondo le già scarse risorse di un'isola in guerra.
Terminato il pericolo il re fuggì da Palermo e sul vascello che lo riportava in patria, a Napoli, all'indirizzo dei siciliani disse: "Cannibali".
E questo noi siamo, cannibali, perché non si sopravvive a migliaia di anni di magnifiche dominazioni straniere per caso, ha un preciso significato: noi non combattiamo mai chi ci invade, ma lo accogliamo come un liberatore dal giogo di quella che fino al momento prima era una magnifica dominazione: lo ospitiamo, lo facciamo diventare il nostro migliore amico pure se un momento prima era nostro nemico, gli apriamo le case, gli apparecchiamo la tavola, lo sfamiamo e lo viziamo, migliaia di anni di tradizione gli sono serviti in tavola, gli offriamo le nostre figlie, certi che il nemico diventerà amico se non un nostro stesso familiare. Noi digeriamo, assimiliamo, gli stranieri dopo averli mangiati, e ci dicono pure grazie per quanto avete fatto. Non tutti, alcuni, come re Ferdinando, hanno la percezione del pericolo, se non la esatta consapevolezza; così scappano, vanno via odiandoci a morte per sempre come il peggior nemico, quello che non si può combattere.
Noi siamo cannibali, cannibali sorridenti, si capisce, e pure riflessivi, a volte colti, nobili e lazzaroni, ricchi borghesi e popolani. E quindi hai ragione, io ho ambientato il racconto in un certo contesto, ma la descrizione dei caratteri appartiene in potenza a qualunque famiglia isolana.
Forse anche tu sei stato mangiato, e digerito senza essertene accorto.
E forse in questa chiave capirai anche la resistenza dei siciliani alla modernità, come fardello anche quello da digerire, pure se se la maggior parte dei giovani oggi va via proprio perché qui non si può essere moderni, non si può costruire la propria storia, perché anche la modernità è una materia assimiliata e fatta propria e quindi mutata secondo le nostre esigenze.
Quanto alla coerenza del racconto. I tre paragrafi incoerenti, come tu scrivi, servono a mettere in luce il personaggio Raimondo. Ma il nucleo della storia, hai ragione, è altrove e si dipana con le due donne di casa. Racconto che ho tentato di far diventare un romanzo senza riuscirci, da cui le edizioni per le gare qui e là di dimesioni sempre diverse.
Da alcune settimane sto provando di metter mano ad alcuni miei romanzi incompiuti nel tentativo di metter una parola fine almeno là. Il fiore amaro è tra questi. Se riesco nell'impresa sarai il primo a saperlo.
Un caro saluto, e chiedo perdono per la verbosità, come dicono in molti ormai.
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Re: Il fiore amaro dell'ailanto
Intendevo infatti la "forma" come i costumi di volta in volta imposti come "accettabili" dall'esterno (oggi, la modernità), e come "essenza" ciò che non potete estirparvi dalle viscere, I vostri costumi, il vostro sentire, la vostra peculiare (grecamente sacra, e quindi a un tempo sentita e formale) ospitalità.
Non viviamo in bei tempi: tutto ciò che non è managerialmente ed economicamente quantificabile viene visto quanto meno con sospetto, quando non esplicitamente cassato per far posto ad altro, lucrativo. Ma io aspiro invece a un mondo dove le ragioni dell'anima siano ascoltate e messe alla pari con quelle della pancia. In quel mondo, in quel tempo, il siciliano, il napoletano, le parole di luoghi diversamente ricchi, saranno come l'italiano nel campo dell'opera.
Sul cannibalizato: un milione di volte, mi farei cannibalizare così!
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Non sono d'accordo, naturalmente- Tu sai scrivere e hai molte qualità. Talento e stile sono in te. Li tirerai fuori. Non sono infallibile e il mio parere di lettrice vale davvero poco ma ho la certezza che tu stia cercando ancora; il modo di esprimersi non si trova schioccando le dita e continua a guardarti intorno. Sono misteriosa? Alla prossima.Namio Intile ha scritto: ↑10/07/2022, 8:45 Grazie, Eleonora. Se non li ho già tirati fuori talento e stile personale, vuol dire che non li posseggo.
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commento Il fiore amaro dell'ailanto
In quegli anni la Salerno Reggio Calabria era un incubo come pure il traghetto. Le finali erano a Catania. Ricordo ancora le parole dei vigili urbani: “il palazzetto è in Corso Indipendenza ma non posteggi lì, a meno che lo voglia fare a suo rischio e pericolo.”
Per la cronaca tutto andò bene, ma Varese non ce la fece e vinse Bologna.
Caos ce n’è da tutte le parti, quindi lungi da me meravigliarmi per queste cose.
Speriamo che i recenti filmini pubblicitari sulla Sicilia siano veritieri.
Anche questo racconto, infatti, non lesina critiche alla società siciliana, anche se esse si riferiscono a un tempo storico remoto.
Veniamo alla scrittura. Molto buona come al solito. Ci sono un paio di spazi mancanti, ma sarà dovuto al programma di videoscrittura (infine,non -- silenziosa;socchiudeva)
-- una cupa costruzione spogliata, dal trascorrere del tempo e dal disinteresse degli uomini, dei segni dell’antico splendore. – Nulla da eccepire sulla forma, ma questa frase per me potrebbe scorrere meglio.
Ci sono dei periodi in cui l’uso del “che” abbonda.
-- differenza degli altri europei» -- io dopo europei ci vedrei bene una virgola.
-- almeno per un’altra generazione, un’altra ancora, il nome illustre dei Montecateno
-- mi chiedo; la ripetizione è voluta?
Qualche commento che tutto vuole essere, fuorché impertinente. Mi limito a segnalare le mie impressioni, magari sbagliate, durante la lettura (o meglio le tante letture).
Grazie a donne viziate e arroganti … ricamate dalle nobili mani … donna Teresa aveva tenuto in piedi la famiglia … --- non credo, ma potrei sbagliare, che dei lavori fatti amatorialmente da due donne potessero permettere a don Raimondo le assidue frequentazioni di bordelli, oltre al mantenimento del palazzo di famiglia e del grande giardino.
Avevo già intuito il finale della storia fin da quando ci è stato detto come era stata concepita la sorella Marianna, ovvero della possibilità di essere il frutto di una relazione incestuosa tra donna Teresa e il fratello. Quando poi don Raimondo mai si decideva a trovare una signora del suo rango, non poteva che finire così.
voto 4 - soprattutto per l'abilità dello scrittore.
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Re: Il fiore amaro dell'ailanto
Le nobili dame si facevano pagare e non lesinavano al rampollo, il quale ne approfittava.
Quanto al finale, sì non poteva che finire così, ma non ho scritto un giallo un noir o un thriller e quindi che tu abbia intuito dove volevo andare a parare in anticipo non toglie nulla al contenuto in sé. Il mio non è un racconto di genere legato all'intreccio, per farmi capire.
Io conosco bene la Lombardia e Milano, ci sono capitato, ma di proposito, parecchie volte. Sono sceso a Linate e poi via in taxi, non ho fatto la Salerno Reggio Calabria. Ho persino un paio di cari cugini molto al top (come dite voi) che hanno preso un mega appartamento alle spalle del Palazzo Reale e quando li sento (spesso ti confesso, perché seppure in giro per il mondo la nostalgia li azzanna) rintraccio in loro, nel leggere tra le righe delle loro dotte disquisizioni da AD e da Senior Partner, la classica spocchia acidula del milanese doc. Boh, sarà colpa dell'acqua che si beve colà o dell'eccesso di sushi di nell'aria.
Se ricapiti in Sicilia, non per caso ma per scelta precisa, prendi l'aereo, Alberto: abbiamo degli splendidi aeroporti a Palermo, a Catania, a Trapani, a Comiso, e un paio persino nelle isole. I traghetti fanno sempre schifo, per questo forse il Ponte sullo Stretto è un tabù, per scoraggiare l'ingresso in auto ed evitare l'inquinamento. Si tratta in realtà di un raro esempio di economia green ante litteram. La Greta di Stoccolma sarebbe al settimo cielo.
Negli alberghi hanno imparato a dialogare in italiano, e anche inglese o francese persino tedesco, e pure nei negozi, certe volte per strada, e da quando siamo entrati nella UE adottiamo financo l'Euro come moneta di scambio, un po' come la Bosnia Erzegovina insomma.
Dicono che siamo tutti italiani, ma non ci crede nessuno, neanche a Malta.
Troverai mare, sole, diecimila anni di storia sparpagliati in terra e gratis da vedere, cibo, vino, olio, tradizione e beni monumentali a iosa, ma speriamo che almeno la pubblicità dica il vero.
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Re: Il fiore amaro dell'ailanto
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Ti faccio i miei sinceri complimenti per la digressione iniziale su quelle che sarebbero, secondo Don Raimondo, le cause degli insuccessi dei siciliani e che già, di per sé, vale il costo del biglietto… Spiegazione che suona al contempo come un alibi. Però mi chiedo: a chi si riferisce nello specifico Don Raimondo? Al siciliano medio, oltre che ovviamente a sé stesso? Secondo me fino a un certo punto. Mi spiego meglio, però prima avrei bisogno di prenderla un po’ larga, e basarmi, nel ragionarci sopra, a qualche mia esperienza lavorativa personale (scusa, passo dal contesto storico a quello aziendale, ma si tratta di una mia deformazione professionale). Per alcuni anni ho lavorato per un’azienda che aveva tre stabilimenti (e ha tuttora), presso i quali, con cadenza mensile, partecipavo alle riunioni di fabbrica, durante le quali si presentavano le performance delle linee di produzione. Nel primo stabilimento, situato a Verona, la riunione, causa una sorta di quarto d’ora accademico non scritta, non cominciava mai prima di 15 / 20 minuti dall’ora ufficiale d’inizio della stessa. In quello di Varone, invece, si spaccava il minuto, a volte qualcuno arrivava con un ritardo di due o tre minuti, ma questo non era considerato un problema. Ad Arco, infine, venivano guardati male quelli che non si presentavano almeno 5 minuti prima dell’ora di inizio della riunione. Io, ovviamente, mi adeguavo alle diverse prassi indicate sopra. Evidentemente la puntualità tipica dei trentini costituiva un potenziale vantaggio competitivo per il secondo e il terzo stabilimento. Ma era davvero determinante? No. Perché l’elemento decisivo era dato dalle modalità con cui i direttori di stabilimento portavano avanti la gestione delle fabbriche poste sotto la loro responsabilità. Quello che voglio dire è che di sicuro le caratteristiche degli individui che costituiscono un popolo (o un organico aziendale) sono molto importanti nell’indirizzare il suo destino futuro, però, alla fin fine, quello che incide veramente sono le scelte della classe dirigente. Paragonando una nazione a un essere vivente, il popolo è dato dai muscoli, dai tendini, dal cuore, dal cervello ma solo per la parte irrazionale, quell’amigdala che è sede delle nostre risposte istintive agli eventi della vita. Ma il cervello, per la parte razionale, quella della corteccia prefrontale, dovrebbe essere dato dalla classe politica, che dovrebbe (continuo a parlare al condizionale) essere in grado di far funzionare al meglio l’organismo. Ma se proprio quella classe dirigente, impersonata da Don Raimondo, si mostra irrazionale (quando Don Raimondo mostra i suoi attributi alla dolce signora, mi fa pensare ai contadini siciliani che accolsero Pisacane come un delinquente e i garibaldini come dei liberatori, probabilmente in entrambi i casi la reazione dei siciliani fu fuori luogo…), allora non c’è davvero più speranza…
Con un po’ di campanilismo, devo dire che, professionalmente parlando, ho avuto brutte esperienze con delle società olandesi e tedesche che, a mio modesto parere, non reggono il confronto con alcune realtà aziendali italiane (ovviamente si tratta di una mia opinione personale e, oltretutto, i pochi casi di cui parlo non hanno alcun valore statistico). E allora mi chiedo: com’è possibile che negli ultimi decenni le economie di Olanda e Germania sono state delle locomotive mentre noi poveri italiani abbiamo sempre arrancato? Mi sono dato questa risposta: la nostra palla al piede (non l’unica) è stata la classe politica (non dico che ogni popolo ha la classe politica che si merita, altrimenti il ragionamento crolla…). Scusa se ho divagato tanto, vorrei solo capire un po’ meglio qual è la tua opinione al riguardo.
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Re: Il fiore amaro dell'ailanto
Grazie del passaggio e delle domande, tante.
Proverò a dire la mia, e spero a rispondere.
Innanzitutto l'autore, cioé io, e il narratore, qui non sempre coincidono, come nella maggior parte dei miei racconti. Ci sono degli spunti, ma il narratore deve essere al servizio del personaggio e l'autore lo deve assecondare.
Qui c'è un antico detto: Cu nesci arrinesci, ossia chi va via da casa, e la casa in senso lato è la Sicilia, comunque riesce a raggiungere una posizione. Non importa il dove o il come, l'importante è irisinni, andare via. E davvero ai siciliani basta andare via per affermarsi, segno che non mancano loro le capacità complessive compresa quella di progettare un avvenire per loro, ma al contrario è rimanendo che queste capacità vengono meno. È il genius loci, il destino di un popolo, ossia, dico io, il contesto generale.
Il contesto non è sempre uguale: la SIcilia era l'America del mondo greco, le sue città più grandi, ricche e splendide di quelle greche e Siracusa sconfiggeva Atene in battaglia durante la guerra del Peloponneso. Lo slogan se vuoi vedere la Grecia vieni in Sicilia non è fasullo. E la Sicilia è stata grande e ha avuto una grande storia almeno fino alla Guerra del Vespro. Cento anni di guerra ininterrotta hanno schiantato l'economia e la demografia dell'isola forse per sempre.
Come scrivevo a Marino chi rimane, rimane in un contesto difficile. Dove si lavora più che nel resto d'Italia per meno e in condizioni peggiori. Ecco perché chi nesci arrinesci, perché le condizioni di base altrove sono migliori e quindi è più facile darsi da fare.
Ogni volta che un siciliano emigra si meraviglia di quanto sia facile questo o quello, perché qui è tutto difficile, arduo, duro, impossibile.
Da cosa dipende? Dal contesto generale, il quale è a sua volta il portato di secoli di storia. Storia che i siciliani vedono in Sicilia come preclusa, riallacciandosi forse, come dice don Raimondo, a un sentimento legato a un passato mediterraneo in cui il tempo non è diacronico, ma ciclico. Una sorta di regressione forse alle più antiche tradizioni che in Sicilia e in molte parti del Mediterraneo vengono conservate e faticano a morire. Penso al culto apotropaico dei Giganti, ad esempio, che dura in tutto il bacino del Mediterraneo.
E quindi le vicende storiche degli ultimi secoli hanno giocato un ruolo non indifferente nel formare il cittadino tipo. Quando tu consideri l'opposizione/composizione popolo elites testa piedi hai in parte ragione. Garibaldi e non Pisacane perché, come ti ho scritto altrove, fu ordinato ai siciliani di quel tempo di accogliere l'uno e non l'altro, di acclamare come liberatore l'uno e non l'altro, perché all'aristocrazia isolana allora l'uno e non l'altro convenivano.
Ma sia il popolo che la sue elites si misurano e si confrontano in un contesto sociale, economico, giuridico interno ed esterno da cui non possono prescindere e che irrimediabilmente ne condiziona le scelte.
Che il popolo siciliano sia capace di rivolte e non di rivoluzioni lo dice la Storia. La rivolta del Vespro, la rivolta di d'Alessi, quella del Sette e mezzo, il movimento dei Fasci, sono movimenti che partono dal basso e non dall'alto, da un sentimento di insofferenza e stanchezza che esplode appunto in rivolte violentissime, ma che non trova in alto risposte se non di tipo repressivo.
Se il Mezzogiorno è stato lasciato ai margini dello sviluppo del paese e adoperato solo come serbatoio di manodopera a basso prezzo o di consenso elettorale, ciò è dipeso dall'assetto economico e sociale che è stato imposto al Sud negli anni immediatamente successivi all'unificazione. È inutile starci a girare su, se dopo quasi due secoli di storia comune il Sud arranca un motivo deve esserci, specie se, come tu scrivi, il capo dirige la testa.
L'unificazione ha funzionato come un vortice in cui le risorse e le energie dell'intero paese sono state concentrate in alcuni luoghi soltanto, tra le regioni del nord e la capitale.
E forse l'identica destino accade oggi con l'Europa, dove le risorse dell'intero continente vengono concentrate il alcuni luoghi e zone tra Francia e Germania per lasciare le altre in brache di tela. È il prezzo che l'Italia paga all'unificazione europea, dove per evidenti motivi geografici anche il nord si trova questa volta in vantaggio.
Negli Stati Uniti avviene da sempre la medesima cosa. La Nuova Inghilterra e la California oltre alcune altre città attirano popolazione e investimenti, mentre gli altri stanno a guardare. Gli stati più poveri dell'Unione sono ancora oggi quelli della vecchia confederazione, soprattutto Mississippi e Missouri i più poveri tra i poveri, come se le vecchie idee abbiano la forza di tenere lontana la modernità.
Perché il contesto creato da decisioni prese a suo tempo per motivi a volte contingenti segnano e indirizzano il futuro.
In quella specie di piccolo saggio sulla Palermo musulmana spiego come Palermo, da città sempre di terza categoria, per una serie di vicende contingenti abbia sottratto il ruolo di metropoli isolana a Siracusa, che lo deteneva storicamente. Così segnando il futuro dell'una e dell'altra.
E il contesto alle volte è dettato dalla testa, come tu affermi, altre volte dal caso.
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Re: Il fiore amaro dell'ailanto
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Bello il linguaggio, sia nelle battute in siciliano, sia nel resto della narrazione, un linguaggio capace di esprimere in modo esplicito ma elegante anche le situazioni più scabrose. Interessante la riflessione sull'uomo e sulla sicilianità. Complimenti!
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Una società chiusa in una scatola, con i suoi sogni e le sue utopie, le sue regole e le sue eccezioni e ovviamente anche le sue perversioni. Personaggi sempre pregni di caratteristiche peculiari e "tipiche" della società in cui si muovono. Affascinatissimo.
In bocca al lupo. Mauro.
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Ciao, Lucia.Lucia De Falco ha scritto: ↑22/08/2022, 17:00 Questo racconto è veramente bellissimo, nulla da dire. L'ho letto tutto d'un fiato senza alcuna stanchezza o noia, nonostante la lunghezza. È perfetto. Belle le descrizioni, accurate nei dettagli. Si può immaginare la grande casa in cui vivono, come una triste prigione, con le sue grandi stanze semivuote e il senso di solitudine che emana.
Bello il linguaggio, sia nelle battute in siciliano, sia nel resto della narrazione, un linguaggio capace di esprimere in modo esplicito ma elegante anche le situazioni più scabrose. Interessante la riflessione sull'uomo e sulla sicilianità. Complimenti!
Sono contento che il racconto abbia colto nel segno. E ti ringrazio per quell'esplicito ma elegante. Quel dire e non dire che sembra facile da realizzare, ma non lo è mai.
Grazie
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Ciao, Mauro.Mauro Conti ha scritto: ↑23/08/2022, 16:49 Ciao Namio. Fin dai primi giorni in cui ero iscritto ho potuto apprezzare i tuoi racconti. E anche questa volta è un pezzo degno del tuo stile profondamente elegante nella scrittura e assolutamente impeccabile come fluidità. Vado matto poi per quei racconti ambientati in "mondi decadenti", ingessati, senza uscita, come spesso tu dipingi, a torto o a ragione, la tua Sicilia.
Una società chiusa in una scatola, con i suoi sogni e le sue utopie, le sue regole e le sue eccezioni e ovviamente anche le sue perversioni. Personaggi sempre pregni di caratteristiche peculiari e "tipiche" della società in cui si muovono. Affascinatissimo.
In bocca al lupo. Mauro.
Contento di rileggerti dopo tanto tempo.
Alla fine BA non è un cattivo posto dove rimanere.
Tutto vero quel che scrivi del Fiore Amaro. Dopo aver terminato una corposa lettura filosofica di quelle mie ho ripensato al racconto e al finale e a quanto mi hai scritto. Mondi decadenti e senza via d'usita e quel perversioni finali. Ossia l'incesto. Dove l'incesto sembra appunto una regressione conseguenza di quella mancanza di via d'uscita.
Epperò, se invece fosse proprio l'incesto la soluzione?
Se Raimondo Montecateno fosse appunto incatenato (nomen omen) a quella vita non da una mancanza di prospettive o una incapacità di guardare oltre, ma dalla impossibilità di uno scambio, di una ambivalenza con il mondo intorno legato all'equivalenza del valore, del denaro, del potere, del fallo, e così via.
E solo invece nell'incesto abbia trovato, sia l'uno che l'altra, il modo di donarsi e di riceversi?
L'ho buttata lì, grazie della visita.
Spero di rileggerti presto.
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Re: Il fiore amaro dell'ailanto
Ma qui sovviene un'altra domanda, l'ambiente circostante in cui è immerso Don Raimondo QUANTO l'abbia condizionato e spinto a fare quello che ha fatto. Anche qui non lo sapremo mai.
È un racconto che lascia alla fine diverse domande. E non domande semplici ma forse quelle più complicate a cui rispondere per un uomo; domande che implicano la sfera morale e della coscienza.
Pertanto è un racconto che "ti lascia" qualcosa, non finisce dove hai messo l'ultimo punto.
Bello! Bravo, complimenti ancora.
Mauro
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Re: Il fiore amaro dell'ailanto
Ciao Namio, certo che hai risposto, grazie mille per l'accurata ed esaustiva analisi. Sì, è vero, alla fine testa e resto del corpo sono un tutt'uno, influenzandosi a vicenda. E spesso, anche i singoli esseri umani basano i loro comportamenti più in base al mal di pancia che altro... Però la domanda resta: allora ci meritiamo i politici che abbiamo? Almeno in parte probabilmente sì... (accidenti!).Namio Intile ha scritto: ↑21/08/2022, 10:14 Ciao, Messedaglia.
Grazie del passaggio e delle domande, tante.
Proverò a dire la mia, e spero a rispondere.
Innanzitutto l'autore, cioé io, e il narratore, qui non sempre coincidono, come nella maggior parte dei miei racconti. Ci sono degli spunti, ma il narratore deve essere al servizio del personaggio e l'autore lo deve assecondare.
Qui c'è un antico detto: Cu nesci arrinesci, ossia chi va via da casa, e la casa in senso lato è la Sicilia, comunque riesce a raggiungere una posizione. Non importa il dove o il come, l'importante è irisinni, andare via. E davvero ai siciliani basta andare via per affermarsi, segno che non mancano loro le capacità complessive compresa quella di progettare un avvenire per loro, ma al contrario è rimanendo che queste capacità vengono meno. È il genius loci, il destino di un popolo, ossia, dico io, il contesto generale.
Il contesto non è sempre uguale: la SIcilia era l'America del mondo greco, le sue città più grandi, ricche e splendide di quelle greche e Siracusa sconfiggeva Atene in battaglia durante la guerra del Peloponneso. Lo slogan se vuoi vedere la Grecia vieni in Sicilia non è fasullo. E la Sicilia è stata grande e ha avuto una grande storia almeno fino alla Guerra del Vespro. Cento anni di guerra ininterrotta hanno schiantato l'economia e la demografia dell'isola forse per sempre.
Come scrivevo a Marino chi rimane, rimane in un contesto difficile. Dove si lavora più che nel resto d'Italia per meno e in condizioni peggiori. Ecco perché chi nesci arrinesci, perché le condizioni di base altrove sono migliori e quindi è più facile darsi da fare.
Ogni volta che un siciliano emigra si meraviglia di quanto sia facile questo o quello, perché qui è tutto difficile, arduo, duro, impossibile.
Da cosa dipende? Dal contesto generale, il quale è a sua volta il portato di secoli di storia. Storia che i siciliani vedono in Sicilia come preclusa, riallacciandosi forse, come dice don Raimondo, a un sentimento legato a un passato mediterraneo in cui il tempo non è diacronico, ma ciclico. Una sorta di regressione forse alle più antiche tradizioni che in Sicilia e in molte parti del Mediterraneo vengono conservate e faticano a morire. Penso al culto apotropaico dei Giganti, ad esempio, che dura in tutto il bacino del Mediterraneo.
E quindi le vicende storiche degli ultimi secoli hanno giocato un ruolo non indifferente nel formare il cittadino tipo. Quando tu consideri l'opposizione/composizione popolo elites testa piedi hai in parte ragione. Garibaldi e non Pisacane perché, come ti ho scritto altrove, fu ordinato ai siciliani di quel tempo di accogliere l'uno e non l'altro, di acclamare come liberatore l'uno e non l'altro, perché all'aristocrazia isolana allora l'uno e non l'altro convenivano.
Ma sia il popolo che la sue elites si misurano e si confrontano in un contesto sociale, economico, giuridico interno ed esterno da cui non possono prescindere e che irrimediabilmente ne condiziona le scelte.
Che il popolo siciliano sia capace di rivolte e non di rivoluzioni lo dice la Storia. La rivolta del Vespro, la rivolta di d'Alessi, quella del Sette e mezzo, il movimento dei Fasci, sono movimenti che partono dal basso e non dall'alto, da un sentimento di insofferenza e stanchezza che esplode appunto in rivolte violentissime, ma che non trova in alto risposte se non di tipo repressivo.
Se il Mezzogiorno è stato lasciato ai margini dello sviluppo del paese e adoperato solo come serbatoio di manodopera a basso prezzo o di consenso elettorale, ciò è dipeso dall'assetto economico e sociale che è stato imposto al Sud negli anni immediatamente successivi all'unificazione. È inutile starci a girare su, se dopo quasi due secoli di storia comune il Sud arranca un motivo deve esserci, specie se, come tu scrivi, il capo dirige la testa.
L'unificazione ha funzionato come un vortice in cui le risorse e le energie dell'intero paese sono state concentrate in alcuni luoghi soltanto, tra le regioni del nord e la capitale.
E forse l'identica destino accade oggi con l'Europa, dove le risorse dell'intero continente vengono concentrate il alcuni luoghi e zone tra Francia e Germania per lasciare le altre in brache di tela. È il prezzo che l'Italia paga all'unificazione europea, dove per evidenti motivi geografici anche il nord si trova questa volta in vantaggio.
Negli Stati Uniti avviene da sempre la medesima cosa. La Nuova Inghilterra e la California oltre alcune altre città attirano popolazione e investimenti, mentre gli altri stanno a guardare. Gli stati più poveri dell'Unione sono ancora oggi quelli della vecchia confederazione, soprattutto Mississippi e Missouri i più poveri tra i poveri, come se le vecchie idee abbiano la forza di tenere lontana la modernità.
Perché il contesto creato da decisioni prese a suo tempo per motivi a volte contingenti segnano e indirizzano il futuro.
In quella specie di piccolo saggio sulla Palermo musulmana spiego come Palermo, da città sempre di terza categoria, per una serie di vicende contingenti abbia sottratto il ruolo di metropoli isolana a Siracusa, che lo deteneva storicamente. Così segnando il futuro dell'una e dell'altra.
E il contesto alle volte è dettato dalla testa, come tu affermi, altre volte dal caso.
Hai tirato poi fuori l'intervento del caso: innegabile quanto la fortuna (o la sfortuna) incida sui singoli eventi della vita di uomini e di interi popoli. Forse di più nel breve termine, meno nel lungo. Tanto per contraddirmi, al riguardo mi viene in mente un interessante libro di Kyle Harper, "Il destino di Roma", in cui l'autore sostiene che l'ascesa e la caduta di Roma, al di là delle tradizionali motivazioni di natura politica, sociale, militare etc. etc., (che comunque non vengono completamente rigettate) siano da ascrivere principalmente all'andamento del clima (cui si aggiungono le epidemie nella fase di declino), sostenendo questa tesi con argomentazioni valide e efficaci. Chissà, questo potrebbe essere lo spunto per una futura discussione...
Ancora grazie e ciao
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In un altro romanzo scritto da un illustrissimo siciliano che ho nel cuore si faceva un ragionamento simile su Roma, dal passato unico e irripetibile, trasformata in acquasantiera dai papi e poi in posacenere dagli italiani.
I tuoi racconti, complessi e bellissimi, offrono spunti di riflessione che vanno al di là della storia.
Voto 5, e per me miglior racconto in gara.
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Re: Il fiore amaro dell'ailanto
Un caro saluto
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Il fallimento del suo ultimo e forse risolutivo proposito, quello di trovare una moglie e affrancarsi dalla dipendenza materna, quale bamboccione qualsiasi, certifica il declino suo personale e quello della casata, declino suggellato dall'incesto che, come letteratura insegna, produce figli con coda di maiale e crepuscoli di dinastie.
Tralascio le considerazioni storiche e sociali che questa storia suggerisce; le avete approfondite nei commenti molto meglio di come potrei azzardare io, mi limito a dirti che questo racconto conferma la tua abilità di narratore e che meriterebbe un respiro più ampio, come hai detto sopra conto che tu ci pensi seriamente.
Ottimo, Namio, un caro saluto.
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Vivere con 500 euro al mese nonostante Equitalia
la normale vita quotidiana così come dovrebbe essere
Vi voglio dimostrare come con un po' di umiltà, di fantasia e di buon senso si possa vivere in questa caotica società, senza possedere grandi stipendi e perfino con Equitalia alle calcagna. Credetemi: è possibile, ed è bellissimo!
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Metropolis
antologia di opere ispirate da un ambiente metropolitano
Cosa succede in città? - Sì, è il titolo di una nota canzone, ma è anche la piazza principale in cui gli autori, mossi dal flash-mob del nostro concorso letterario, si sono dati appuntamento per raccontarci le loro fantasie metropolitane.
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La Paura fa 90
90 racconti da 666 parole
Questo libro è una raccolta dei migliori testi che hanno partecipato alla selezione per l'antologia La Paura fa 90. Ci sono 90 racconti da non più di 666 parole. A chiudere l'antologia c'è un bellissimo racconto del maestro dell'horror Danilo Arona. Leggete questa antologia con cautela e a piccole dosi, perché altrimenti correte il rischio di avere terribili incubi!
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La Gara 16 - Cinque personaggi in cerca di storie
A cura di Manuela.
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Gara d'estate 2023 - La passe - e gli altri racconti
A cura di Massimo Baglione.
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La Gara 2 - 7 modi originali di togliere/togliersi la vita
A cura di DaFank.
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